“ll lavoro è un’amante pericolosa. Ti seduce con grandi promesse: di successo, di status, di reddito. Indossa i tuoi sogni, le tue ambizioni, i tuoi desideri. E quando ti ha preso il cuore, perché ne hai assaggiato il sapore eccitante, e ti piace il suo gusto di adrenalina nelle vene, e il lampo di esaltazione che ti fa vibrare quando ottieni la meta che desideravi, ti chiede sempre di più. Vuole il tuo tempo, le tue energie migliori, la tua creatività, la forza dei tuoi entusiasmi e dei tuoi slanci. Diventa gelosa dei tuoi affetti e del tuo tempo libero. Può diventare pervadente come un’ossessione” così descrive il workaholic la prof.ssa Alessandra Graziottin.
Negli articoli “Lavorare per vivere, non vivere per lavorare: cos’è il workaholic” e “Chiuso per workaholic: come distaccarsi dalla dipendenza dal lavoro” ho descritto il workaholic e come poterlo affrontare con il supporto delle Terapie Brevi.
Oggi, invece, in questo articolo, voglio riportarti un caso tratto dal libro “Le Nuove Dipendenze” di Portelli e Papantuono.
Dalla Terapia di coppia al workaholic: quando il lavoro distrugge la coppia
Si presentarono da noi due giovani adulti, Massimo ed Elisabetta, entrambi di circa quaranťanni, per un problema di coppia. La moglie diceva che quella per era l’ultima spiaggia prima di chiedere il divorzio.
Elisabetta, che sembrava un vulcano in eruzione, sosteneva: “Stare con quest’uomo, se prima era solo difficile, nell’ultimo periodo è diventato impossibile”. Con veemenza aggiungeva: “Mio marito ha sposato il suo lavoro, non me. E’ sempre attaccato al suo PC o al telefono. Non mangia più con noi, non viene mai con noi dai nonni o ai pranzi in famiglia […] ad Agosto, quando siamo stati per una settimana in vacanza, è rimasto quasi tutto il tempo in albergo, in camera […] e quando veniva in spiaggia stava attaccato a quel maledetto cellulare”. E’ importante sottolineare che mentre Elisabetta descriveva la loro situazione, Massimo rispondeva, seppur sinteticamente a diverse telefonate: “Sono impegnato, richiamo dopo io”.
Massimo era un ingegnere, socio di una famosa azienda nautica con business in tutto il mondo. Prima stava sempre in giro, ma con la nascita della figlia aveva promesso di essere più presente per vederla crescere. Perciò si era attrezzato dentro casa dotandosi di un PC super-tecnologico che gli permetteva di effettuare consulenze e di risolvere problemi tecnici a distanza. Era molto bravo in quello che faceva. Da quello che diceva, sembrava che l’azienda di cui faceva parte senza di lui non avrebbe mai potuto raggiungere le attuali dimensioni. Tutti avevano grande riverenza nei suoi confronti e per il suo operato. Il lavoro gli dava grandi soddisfazioni.
Ogni cosa stava andando a gonfie vele, fino al presentarsi di problemi intestinali che, mentre in un primo momento dallo stesso Massimo vennero sottovalutati, negli ultimi mesi erano diventati molto dolorosi e invalidanti. Sotto le pressioni della moglie andò a fare delle visite specialistiche “che mi hanno portato via tanto tempo prezioso…”. Dopo parecchi esami, i medici diagnosticarono il morbo di Crohn. Nessuno della sua famiglia aveva avuto lo stesso problema; inoltre, trattandosi di un soggetto non fumatore né bevitore, il medico specialista che lo seguiva, dopo numerosi test e indagini sulle abitudini di vita, scartò il fattore genetico e ipotizzò un’eziologia a base stressogena. Con le lacrime agli occhi, Elisabetta disse: “Non si sta rendendo conto che si sta ammazzando e che così ammazza anche me e nostra figlia..”.
Il lavoro di riguadagnarsi la propria vita
Massimo ammetteva che la moglie aveva ragione, sentiva di trascurare se stesso e la famiglia per il lavoro, che prendeva tanto del suo tempo. Tuttavia, non comprendeva come sua moglie non riuscisse a capire il suo ruolo e le importanti funzioni che svolgeva in azienda: la fonte dei loro frequenti litigi. Elisabetta, nel tempo, era diventata intollerante verso il marito, il suo PC e tutto quello che riguardava il suo lavoro. La signora sosteneva che, ormai, il marito anche in casa era assente, era costantemente orientato al lavoro e, anche quando avrebbe potuto staccare, ne cercava il contatto. Massimo, dall’altra parte, non nascondeva di amare il suo lavoro, ma ancor più tenacemente sosteneva di amare la sua famiglia e di non volerla perdere. In seguito alla minaccia di divorzio della moglie, quindi, avevano deciso di rivolgersi a qualcuno di esperto.
Data la richiesta specifica di aiuto, la prima parte dell’intervento venne dedicata al ripristino del sano equilibrio di coppia, mettendo in atto il protocollo di trattamento specifico per i problemi relazionali di coppia (Nardone, 2005; Muriana, Verbitz, 2010). In queste circostanze, si chiede di dedicare mezz’ora quotidianamente al problema. La coppia deve concedersi uno spazio a scaricare tutto ciò che si accumula e che, spesso invano, si cerca di trattenere. Una volta calmate le acque viene indicato loro di tornare a trattarsi come “fidanzatini”, almeno una volta a settimana. In questo caso, trovandoci di fronte due persone dotate e motivate, già dopo i primi incontri cominciò a essere evidente una maggiore armonia. Stavano riuscendo a non litigare più e a recuperare ritagliandosi del quality time.
A questo punto, Massimo chiese un aiuto specifico per la sua workaholism. Anche perché durante un viaggio in macchina, in autostrada, venne preso da una crisi d’ansia acuta, che lo spaventò tantissimo. Il suo problema fisico (il morbo di Crohn), anche se in forma molto attenuata, permaneva; adesso, avrebbe dovuto solo imparare a conviverci.
Massimo, dopo aver compreso di aver abusato del lavoro fino a renderlo la causa preponderante dei suoi malesseri, chiese di poter fare delle sedute in modo da poterlo gestire senza restarne soffocato. Egli fu in grado di compiere il suo salto di qualità, in seguito all’acquisizione della consapevolezza che nella vita, come nel lavoro, è il voler andare veloci che finisce per rallentare. Da questo momento in poi, il nostro intervento si trasformò in una sorta coaching: gli venne insegnato a gestire l’irrefrenabile bisogno di fare, concedendosi il lusso di prendersi tempo, “imparando ad andar piano, al fine di valutare adeguatamente più prospettive e magari godendosi anche la vita”. Il nostro lavoro, in questa seconda fase venne improntato sulla massima di Napoleone Bonaparte: “Vado piano perché ho fretta”.
Dr Flavio Cannistrà
Co-Fondatore dell’Italian Center for Single Session Therapy
co-Direttore dell’Istituto ICNOS
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
Bibliografia
Di Nuovo, S., Santisi, G. (2011). Che stress al lavoro. In Psicologia Contemporanea, n. 223.
Giovannone, M. (2010). I rischi psicosociali: un focus sullo stress lavoro-correlato.
Portelli C. & Papantuono M., (2017). Le nuove dipendenze. Riconoscerle, capirle, superarle. San Paolo Edizioni.
Smart, A. (2014). In pausa. Come l’ossessione per il fare sta distruggendo le nostre menti. Milano: Indiana.
Strøbæk, P.S. (2013). Let’s Have a Cup of Coffee! Coffee and Coping Communities at Work. In Symbolic Interaction, vol. 36, 3.