Finire una storia che non vuole finire

A volte le storie finiscono. A volte la persona con cui stai, con cui sei stata o stato da tutta una vita, o da tanti anni, o anche solo per un piccolo ma importante tempo della tua vita, sembra non essere più quella con cui hai iniziato.

O forse lei è sempre lei, sei tu a essere cambiata?
O siete cambiate entrambe? 
O magari è cambiato qualcosa attorno a voi?

Le domande, così come le possibilità, sono tante. La sicurezza è una: c’è qualcosa di diverso e senti che, forse, questa storia non può più andare avanti. Ma non riesci a chiuderla.

È una condizione che mi trovo spesso nel mio studio e per la quale la Terapia Breve è molto indicata. Vediamo se riesce a darci qualche spunto anche qui.

Storie che continuano

Non c’è niente che non vada davvero. Lui è perfetto, o quasi… Lei è magnifica, o comunque è una brava persona…

Ecco, se solo non lo fossero. Se solo lui fosse un coglione o lei una stronza. Scusa la volgarità, ma è questo che pensiamo a volte, no? “Se solo avesse qualcosa che non va, qualcosa di evidente.” Sarebbe più facile, giusto? Avresti un appiglio, un alibi, una giusta causa per lasciarlo.

E magari lo vai anche a cercare, vai a radiografare i suoi comportamenti, alla ricerca di qualcosa che non funziona. Solo che questo ti fa notare (forse) tanti piccoli puntini neri, ma nessuna vera macchia indelebile a cui puntare il dito per urlare “Basta!” alla vostra storia.

E anzi, in questa ricerca paradossale (più cerchi prove schiaccianti, più trovi indizi marginali) magari finisci per trovare delle qualità, e usare quelle come giustificazioni, come piccole briciole che possano tenere in vita ancora un po’ la relazione. “In fondo, non stiamo male insieme: ci divertiamo, ridiamo, usciamo…” ti dici.

E poi, segretamente, speri che la palla passi a lui. Desideri in silenzio, senza dirlo a nessuno, che sia lui a dirti “Basta” o “Ho trovato un’altra” o “Ti voglio bene, ma forse siamo arrivati al punto che dovremmo rimanere amici. Vuoi?” Sarebbe magnifico, vero? Diresti “Sì” come su un altare. Soffriresti, lo sai, soffrirebbe anche lui, ma sapete anche che sarebbe meglio così.

Ma passano i giorni, cadono le foglie, si accumulano gli anni, e questo desiderio segreto non si realizza mai.

Storie che finiscono

A volte le storie finiscono. Penso sia questo il punto. 

Possiamo scomodare scrittori, poeti o anche psicologi. Possiamo leggere i libri e saperne di più – e magari trovare lì il coraggio per. Ma il punto rimane quello: al di là delle spiegazioni emotive, razionali, sociali o relazionali, le storie, a volte, finiscono. La fiamma si spegne, cade la penombra nella stanza, si intiepidisce la temperatura, e si vive in uno stato che non è sgradevole, ma che non è più amore.

O forse sì, lo è.

“La verità, vi prego, sull’amore” urlava Auden nelle sue poesie, cercando di capire cosa diamine sia. E allora lo chiamiamo così – perché se fosse certo, se potessimo dire con certezza cos’è e cosa non è amore, quand’è e quando non è amore, potremmo dire con certezza se è il momento o meno di lasciare l’altro. Forse.

Ma la linea non è netta, la parola giusta non è sempre facile da trovare, e allora il punto rimane quello: a volte, per ragioni che la ragione non sempre comprende, le storie finiscono.

Quando una storia finisce?

Magari l’hai fatto. Sei andato online, hai digitato “Come capire quando una storia è finita” e hai cercato gli elementi chiave, i segni, i sintomi di una storia finita.

Probabilmente hai trovato qualcosa come:

  • non avete più rapporti sessuali da mesi o da anni, o comunque l’intimità e il desiderio sessuale e sensuale sono al minimo storico: fate l’amore di tanto in tanto e sembra quasi più un dovere, che un piacere, un desiderio;
  • vedi lei/lui più come un’amica/amico: capire la differenza tra voi e due coinquilini che semplicemente condividono una stanza, o tra voi e due amici molto affiatati e che conoscono tutto l’uno dell’altra, è difficile – forse nemmeno c’è, quella differenza;
  • provi continui fastidi nei suoi confronti, verso suoi comportamenti, atteggiamenti o modi di essere, che magari fino a prima non erano un problema: raramente sono alti, questi fastidi – perché quando capita, potrebbe essere più facile lasciare l’altro.

Questi e altri, con tutte le sfumature del caso, sono alcuni segni. E ti sembra che in parte corrispondano e in parte no. Alimentando il dubbio di cui prima, riempiendo la tela di altri puntini neri, ma mai di grandi chiazze sporche.

La verità, sull’amore, è che l’amore è in larga parte una questione di pancia, più che di testa, lo sai no? Sono più le sensazioni, che le ragioni. “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”, diceva Blaise Pascal. È così, è sempre stato così e così sarà per sempre. Potrai capire, con la testa, ma solo fino a un certo punto.

Se cerci un finale chiaro, un “The end” alla fine di una trama pulita, netta e senza strani intrecci, rimarrai per sempre sospeso.

Fino a quanto puoi aspettare

Paul Watzlawick raccontò di un amico il quale, il primo giorno di convivenza, dopo le nozze, trovò la mattina un pacco di cereali per colazione. Odiava i cereali. Ma non voleva nemmeno indispettire la moglie quel primo giorno. Così non disse niente, mangiò i cereali e nei giorni a venire finì la scatola. E a quel punto, ne trovò un’altra, diligentemente comprata dalla moglie, contenta che il marito avesse apprezzato il suo gesto. Sedici anni dopo, racconta Watzlawick, quell’uomo ancora mangia cereali per colazione.

Un’amica* una volta mi disse: “Dopo tre anni capii che qualcosa non andava, che forse non era quello giusto. Ma dissi che mi dovevo dare altro tempo, e il fatto che lui venisse da una relazione precedente di enormi delusioni e tradimenti, e io anche, mi fece sentire un piccolo senso di colpa. Così decisi di darci un po’ di tempo.

L’anno dopo, quella sensazione non era sparita. Non stavo male, ma qualcosa non andava. Ma, come ho detto, non stavo male: pensai che avrei potuto aspettare ancora un po’.

Il quinto anno mi resi conto che la sensazione continuava a essere lì. Come un leggero fastidio, che ti accompagna lungo tutti i tuoi giorni, ma che è impercepibile la maggior parte della giornata. Ma stavamo insieme da cinque anni, e lui aveva dei problemi a lavoro: come potevo lasciarlo ora?

Il sesto anno mi resi conto di quante cose erano cambiate tra noi. Eravamo grandi amici, era il mio porto sicuro e io ero il suo. Ci supportavamo a vicenda, andavamo tutti i weekend in giro, eravamo anche andati a vivere insieme. Ma non erano queste le cose che erano cambiate: queste erano le cose che erano rimaste uguali negli anni. Ciò che era cambiato era più impalpabile; era la quotidianità, era l’amore. Provavamo amore, ma non ci amavamo più. Provavamo affetto, ma non eravamo più innamorati. O forse sì? Me lo domandavo. Non tutti i giorni: ogni tanto. Ma dopo sei anni e dopo aver iniziato una convivenza, potevo lasciarlo?

Il settimo anno fu uguale al sesto, che era stato uguale al quinto. ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’. Niente di brutto, niente di male, niente di orribile. Ma niente di nuovo. Vivevamo la piatta calma di una serena relazione qualunque. Il sesso, quello era l’unica cosa decisamente cambiata: era piacevole, quando lo facevamo, non bello come sette anni prima, ma piacevole; solo che era raro e non spontaneo. Quasi per convincerci che avevamo ancora una storia.

L’ottavo anno perse la madre. Come potevo lasciarlo?

Il nono anno ci fu la crisi economica globale e perse tantissimi clienti. Come potevo lasciarlo?

Il decimo anno non gli parlavo più da tempo di figli o di matrimonio; ma erano dieci anni che stavamo insieme. Come potevo lasciarlo?

Come potevo lasciarlo?

Il momento giusto

Il momento giusto non arriva mai. Lo puoi aspettare, lo puoi cercare, puoi provare a crearlo. Ma non arriverà mai. Ci saranno sempre dei cereali, delle madri, dei lavori, delle crisi, del tempo che scorreranno su di voi, davanti ai tuoi occhi, e che ti faranno sembrare ogni momento inopportuno, ogni tempo il tempo non giusto.

Forse il momento giusto è quello che non fa male, o quello che fa un po’ meno male. Ma la verità è che farà male comunque. Lo farà, per forza. Anzi, lo sta già facendo – a entrambi, anche a lui, anche se sembra aver accettato la situazione, anche se sembra che a lui, in fondo, le cose vanno bene così (e magari anche a te?).

La verità è che state già soffrendo. E dovete decidere – uno di voi due, perlomeno, dovrà farlo – se soffrire per un ultimo taglio netto a quella parte di voi che da tempo non ha più linfa, o se soffrire ogni giorno, una goccia di amaro alla volta, aspettando qualcosa che forse non arriverà mai, e che se arriverà, potrebbe essere ciò che non avresti mai voluto accadesse.

Il lieto fine

Aristotele parlò del “viaggio dell’eroe”, quel copione in cui la persona, per raggiungere un obiettivo, passa attraverso un momento di sofferenza, la supera e poi si eleva a uno stato più alto di esistenza.

Il viaggio dell’eroe ci insegna che non c’è conquista senza sofferenza, che come la fenice a volte dobbiamo rinascere dalle ceneri della nostra condizione precedente e che per elevarci dobbiamo prima discendere, verso percorsi che potrebbero non piacerci, ma che è necessario camminare.

“Ogni viaggio di mille miglia comincia sempre con un passo”, disse Lao Tsu. Qual è il primo tuo?

Dr Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi

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*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.