Depressione: meno farmaci, più psicoterapia

Critiche all'eccessivo uso di farmaci per la depressione

L’università di psicologia più prestigiosa d’America contesta formalmente l’associazione psichiatrica americana

Perché crediamo che il modo migliore per curare la depressione sia un farmaco, quando la psicoterapia potrebbe essere più efficace?

Per rispondere a questa domanda dovremmo passare diverso tempo a parlare di psicofarmaci, risultati terapeutici ed efficacia della psicoterapia. Ma oggi mi concentrerò in poche righe su un punto essenziale: chi decide se è meglio un farmaco o la psicoterapia?

Chi decide cosa

Prima di tutto chiariamo subito un punto. Studiando e applicando le terapie brevi raramente richiedo l’utilizzo dei farmaci. Questo però non vuol dire che io sia contrario per partito preso: in alcune situazioni sono sicuramente utili.

Chiarito questo, passiamo a una domanda semplice: come fanno i professionisti a classificare un cosiddetto “disturbo mentale”? In altre parole, come decidono chi ha un problema psicologico e chi no?

Naturalmente ci sono diversi metodi, strumenti e riferimenti accettati dalla comunità scientifica: nulla dev’essere lasciato al caso o a improbabili guizzi creativi. Ma questi strumenti possono essere messi sotto dura critica, com’è recentemente accaduto.

Il DSM-5

Esiste un manuale noto come Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, o DSM), il più utilizzato strumento di classificazione in base al quale molti terapeuti decidono la terapia da effettuare. 

La prima edizione risale al 1952 e il prossimo anno dovrebbe uscire la quinta. Un’uscita che sta sollevando critiche da più voci, molte delle quali accusano le industrie farmaceutiche di influenzare la ricerca scientifica per i propri interessi. E l’ultima critica viene dal Prof. Mark Schulman, presidente della Saybrook University di San Francisco.

L’accusa è che «il DSM-5 gonfia i criteri diagnostici in misura tale da patologizzare il comportamento normale e il naturale funzionamento umano». Da qui viene facile pensare per alcuni come questa iper-patologizzazione non sia casuale, ma voluta: se diventa più facile dire che qualcuno ha un disturbo, diventa più facile vendergli un farmaco.

Depressione: pillole o psicoterapia?

Di nuovo, facciamo chiarezza. Io aborro il complottismo o le teorie cospirazioniste. Non mi voglio nemmeno lontanamente confondere con chi vuole sollevare critiche sterili e prive di fondamenta solide. C’è però da dire che nelle critiche mosse da persone come il Prof. Schulman qualche spunto di riflessione c’è.

Prendiamo l’esempio della depressione.

Nel manuale la depressione che segue alla morte di una persona cara verrà ritenuta una vera e propria malattia mentale se durerà più di due mesi – mentre attualmente il limite è di sei mesi. Questo pone molti dubbi su chi e come decida cosa è “malattia mentale” e cosa no.

Ricordando inoltre che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione sarà un male dilagante entro il 2020 qualcuno potrebbe pensare che c’è chi si sta facendo dei conti ben precisi: se diventa più facile diagnosticare un disturbo, si venderanno più farmaci per curarlo.

Al di là di inferenze e supposizioni diversi punti della critica del Prof. Mark Schulman sono interessanti.

Egli invita i terapeuti a rimettere l’uomo e le sue capacità al centro dell’attenzione, smettendo di affidarsi primariamente alla chimica, alle pillole, ai farmaci. L’uomo ha in sé le risorse per risolvere la maggior parte dei problemi e il lavoro degli psicologi, e il focus principale della terapia breve, è quello di aiutare la persona a sbloccare e potenziare le sue risorse.

Il Prof. Schulman rientra in quell’onda di professionisti che, ad esempio, attaccano l’uso di farmaci per bambini “agitati” (si veda il caso Ritalin), criticando il fatto che i terapeuti vengono sempre più indotti a prescrivere farmaci anziché «parlare effettivamente con le persone che stanno cercando di aiutare e conoscerle come esseri umani», ricordando che «la migliore ricerca suggerisce che il parlare sia una terapia molto più efficace rispetto all’alterare l’umore con i farmaci, e che sia in realtà il paziente a fare la maggior parte del lavoro nella guarigione di se stesso».

Antidepressivi: il crollo di un mito

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In questo libro Kirsch sfata il mito degli antidepressivi (clicca sull’immagine)

Questo naturalmente non vuol dire che dobbiamo smettere una cura (anche perché se stiamo prendendo psicofarmaci l’errore più grande che possiamo commettere è quello di interromperli di punto in bianco: vanno scalati gradualmente, monitorati da un medico). Significa però che abbiamo un’altra prospettiva.

Infatti quella di Schulman non è una voce fuori dal coro. Anzi.

In un altro articolo ho parlato del lavoro di Irving Kirsch e di come ha buttato giù le credenze sugli antidepressivi (clicca qui). Kirsch e il suo gruppo hanno fatto un mastodontico lavoro di ricerca, prendendo tutti gli studi sugli anti-depressivi e scoprendo che in un’altissima percentuale di casi (oltre l’80%) l’anti-depressivo non è più efficace di… un bicchiere d’acqua, cioè dell’effetto placebo.

Questa scoperta è descritta nel suo bel libro I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito, che come sottotitolo ha: “Dalle pillole della felicità alla cura integrata”. Infatti l’integrazione delle cure è la strada migliore. Anzi, c’è di più.

3 step per affrontare la depressione (e qualunque disturbo mentale)

Il mio suggerimento per chi dovesse avere un problema come la depressione, o anche altro come attacchi di panico, disturbi ossessivi, forme di ipocondria e così via dicendo, è quello di seguire un percorso in 3 step:

  1. Rivolgiti rapidamente a uno psicoterapeuta, possibilmente uno che pratichi la terapia breve: non lasciar passare settimane, mesi o addirittura anni, ma prendi subito contatto per affrontare il problema. Questo ti darà ottime chance di superarlo in poche sedute, a volte anche solo una (per saperne di più clicca qui).
  2. Valuta con il terapeuta la possibilità di prendere degli psicofarmaci: se pensi che possano servirti, chiedilo a lui, perché ti potrà dare ottimi consigli in base alla sua esperienza. A volte, infatti, il terapeuta sa che in poche sedute potresti star meglio e ti consiglierà di aspettare un poco. Altre volte sarà lui a consigliarti di rivolgerti a un medico per integrare una cura psicofarmacologica, perché magari ritiene che la terapia gioverà del supporto di un farmaco per un periodo limitato di tempo.
  3. Dopo 5-7 sedute, valuta come stai: la maggior parte dei problemi, se trattati con la psicoterapia breve, in quest’arco di tempo migliora considerevolmente, o addirittura si risolvono. Una persona* che venne da me una settimana dopo aver sperimentato per la prima volta degli attacchi di panico li risolse in solo 3 sedute: a un anno e mezzo dalla fine di quella terapia non ha mai avuto ricadute. Se, però, dopo 7-10 sedute non vedi l’ombra di un risultato, valuta se cambiare terapeuta: potrebbe non essere quello adatto a te.

Questi consigli generali posso aiutarti nel capire come affrontare un problema e come ridimensionare il potere del farmaco, e riscoprire quello della psicoterapia, il cui scopo è permetterti di accedere alle tue risorse per affrontare e superare il tuo problema.

Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia

Riferimenti bibliografici
Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani
(2012). L’università di psicologia più prestigiosa d’America contesta formalmente l’associazione psichiatrica americana
Dell’Antonia, K.J. (20 agosto 2012). Criticizin the Ritalin Generation. In TheNewYorkTimes.com
INAIL (2010). Depressione. Allarme Oms: nel 2020 seconda causa di disabilità nel mondo.
Kirsch, I. (2012). I farmaci antidepressivi: il crollo di un mito. Milano: Tecniche Nuove.
Schulman, M. (22 giugno 2012) Taking a Stand. In HuffingtonPost.com

*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.