La diagnosi: aiuto o trappola?

Mi capita spesso di vedere persone che arrivano nel mio studio con una diagnosi già fatta da altri professionisti.

Un’etichetta consegnata alla persona in base a valutazioni, test, colloqui che, spesso, però, non fa altro che incastrare ancora di più quella persona nel suo problema.

Mi spiego meglio…

La diagnosi serve ai professionisti per parlare lo stesso linguaggio, per capirsi in modo più rapido ed avere subito un’idea condivisa di ciò di cui si sta parlando.

Anziché dire a un collega: “Sto seguendo una ragazza* che è fortemente sottopeso, non ha mestruazioni da sei mesi, mangia quantità microscopiche di cibo, si vede sempre grassa, tende a non esprimere le emozioni ecc.”, posso dire “Sto vedendo una ragazza anoressica.” Il collega, che ha studiato l’anoressia come me, saprà subito di cosa parlo.

La diagnosi ha permesso ad entrambi di capirci immediatamente su alcuni punti generali, ma fondamentali.

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La diagnosi è uno strumento, ma non è tutto…

Dov’è il problema quindi?

Il problema sta nel fatto che quando la persona arriva con una diagnosi già fatta, il professionista si potrebbe dimenticare della persona stessa e concentrarsi unicamente sulla sua diagnosi, sul suo problema.

Le persone, invece, sono uniche.

Se seguo due ragazze definite entrambe dalla diagnosi come “anoressiche”, mi accorgo ben presto di quanto queste due ragazze siano diverse fra loro e abbiano caratteristiche, risorse, modi di esprimersi unici e particolari, pur condividendo lo stesso problema.

Avere una diagnosi può indirizzarmi verso un trattamento piuttosto che un altro, ma ciò dovrà sempre essere calibrato, misurato e cucito su misura rispetto alla persona che ho davanti.

L’etichetta è un’etichetta. Non è la persona.

Questo è uno dei motivi per cui in Terapia Breve metto al centro proprio te, la tua persona, con le tue caratteristiche: si parte da quelle per poter garantire un successo maggiore e migliore.

Le trappole della diagnosi

Ti è mai capitato di pensare così tanto a qualcosa che non volevi che accadesse…e poi è accaduta?

Questo è ciò che viene chiamato come “profezia che si auto avvera” e può essere considerata la trappola delle trappole.

Perché?

Il semplice fatto di pensare che qualcosa possa accadere può farla accadere, perché se penso che certe cose andranno in un modo, dispongo me e/o l’altro in uno stato tale da adottare percezioni, atteggiamenti e comportamenti che spingono proprio in direzione di ciò che temo o penso accada.

Così, se penso che le pazienti “anoressiche” siano pazienti difficili con cui lavorare, come pensi che mi disporrò nel momento in cui ne vedrò entrare una nel mio studio?

Attenzione!

Non sto dicendo che la diagnosi sia inutile e che bisogna ignorare tutto ciò che riguarda la diagnosi.

Ma sto dicendo che bisogna fare attenzione alla diagnosi, perché il professionista rischia di incepparsi sull’etichetta rispetto al problema della persona. E la persona rischia di rimanere intrappolata in una definizione di se stessa riduttiva.

Se vogliamo restare sull’esempio dell’anoressica, l’anoressia è il suo problema, ma questo non definisce la persona in quanto tale.

La persona anoressica, oltre ad avere un problema con l’alimentazione e con la percezione di sé, avrà altre milioni di caratteristiche che non fanno assolutamente parte del suo problema e che, quindi, non devono essere trascurate.

Qual è il rischio di vedere SOLO la diagnosi?

Il rischio non è solo per i professionisti, ma può essere anche tuo.

Perché non sono solo gli altri a darti un’etichetta, ma puoi farlo anche da solo.

Pensa a quanto ormai sia diffuso l’uso di internet per “verificare” di avere un problema o per cercare a cosa corrispondano determinati sintomi.

Metti da parte medico, psicologo ed altri professionisti e via alla ricerca della tua autodiagnosi.

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Oltre la diagnosi…c’è la persona!

Il dover dare un nome a qualcosa può essere un rischio, perché potresti farti un’idea sbagliata del tuo problema, potresti dargli un nome sbagliato e convincerti di avere un qualcosa che in realtà non hai.

Diventi così vittima, giudice e carnefice di te stesso. La (auto)diagnosi ti condanna. O ti condanna chi te la fa.

Cosa fare?

La diagnosi, ovviamente, non è un qualcosa da demonizzare e buttare nel cestino. Può essere un utile strumento, se usato nel modo corretto.

Detto ciò, il suggerimento è quello di accogliere l’eventuale diagnosi, ma confrontarsi con uno psicoterapeuta per capire meglio di cosa si tratti, che implicazioni ha, cosa è meglio per te e cosa può esserti più utile.

Un altro suggerimento è quello di non pensare alla diagnosi come ad un’etichetta tatuata sulla pelle a vita. Perché oltre la diagnosi ci sei tu, la tua persona.

Se sarai convinto di essere la tua diagnosi, sicuramente sarà così. E ne resterai intrappolato.

Ma se penserai che il nome con cui hanno chiamato il tuo problema è soltanto un nome, starai mettendo al centro non tanto la diagnosi, ma te stesso.

Bibliografia

Bohart A. C. & Tallman K. (2010). Clients: the neglected common factor in psychotherapy. In Duncan B., Miller S., Wampold B., Hubble M. (Eds). The Heart and Soul of Change, 2nd, 83-111. Washington, DC: American Psychological Association.

Cerere E. (2019). Dall’altra parte dell’etichetta. Youcanprint: Lecce.

Dr Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi

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*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.