Tagliarsi con lame, spegnersi le sigarette addosso, graffiarsi fino a sanguinare… Qual è il significato e le cause dell’autolesionismo e come aiutare una persona autolesionista?
Farsi del male è una pratica che ha attirato in modo crescente l’attenzione dei media. E anche dei ricercatori: negli ultimi 15-20 gli studi sugli atti autolesivi sono aumentati, anche per via di un aumento degli stessi atti.
Attirano molto l’attenzione, soprattutto perché riguardano in larga misura gli adolescenti. Eppure, spesso è possibile liberarsene velocemente, grazie alle Terapie Brevi.
Come? E cosa si può fare?
Gioventù… bruciata
Come detto, gli atti autolesivi riguardano soprattutto l’adolescenza: sotto i 20-25 anni tendono a ridursi drasticamente.
Generalmente non sono pericolosi per la vita della persona: non c’è un’intenzione suicidaria, dietro. Tuttavia non vanno sottovalutati: sono un’evidente espressione di disagio e sofferenza da parte di chi li compie.
La frequenza è difficile da accertare. A seconda degli studi, e delle popolazioni coinvolte, si va dal 10 al 30% tra i giovani, soprattutto minorenni.
Molto però dipende da cosa si intende per autolesionismo: Vanderhoff e Lynn (2001) hanno mostrato che se ci si riferisce al fatto di tagliarsi o bruciarsi i dati sono più bassi (benché 10% significa che 1 ragazzo/a su 10 li compie!); ma se aggiungi altri atti, come sbattere volontariamente la testa contro il muro, ecco che la percentuale sale.
Alcol, droghe e bulimia
È abbastanza comune che agli atti autolesivi si associno altre problematiche: l’abuso di alcol, l’abuso di droghe, ma anche i disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia, l’anoressia o la sindrome da vomito.
L’associazione con questi ultimi tre problemi si allaccia anche a un’altra caratteristica particolare: come per quelli, anche l’autolesionismo è una pratica molto più frequente nelle donne che negli uomini. In Europa, se circa 1 ragazzo su 25 è a rischio di atti autolesivi, per le ragazze questo rapporto scende a 1 ogni 7 (Madge et al., 2008).
Il quadro, insomma, è tutt’altro che semplice.
A questo naturalmente si associano le situazioni, più rare, di chi è affetto da altre problematiche severe, come la schizofrenia o la demenza: solitamente in questi casi gli atti autolesivi sono ben più gravi, e si parla di atti autolesivi maggiori, in contrasto con gli atti autolesivi minori di cui stiamo parlando oggi (Favaro et al., 2004).
Perché ci si ferisce?
Diverse fonti danno diverse spiegazioni sulle cause dell’autolesionismo: dal trauma infantile (che praticamente lo si può trovare come pseudo-spiegazione di qualunque problema – attenzione: non vuol dire che va sottovalutato, men che mai sminuito: semplicemente non può essere usato come spiegazione per ogni cosa, dato che un trauma nell’età infantile può portare a sviluppare di tutto) a un disturbo di personalità, fino a disfunzioni neurologiche.
Senza andare a scavare nelle dinamiche uniche che possono portare un individuo a provocarsi dolore, seguendo l’approccio pragmatico di molte Terapie Brevi possiamo dire che in linea di massima i motivi sono principalmente 2:
- Autolesionismo come atto sedativo: in questo caso ferirsi serve a sedare delle emozioni. Il dolore fisico viene indotto per sopprimere un dolore emotivo: tagliarsi, scorticarsi la pelle, farsi piccole ustioni, strapparsi dei peli, mordersi labbra o altre parti del corpo ecc. hanno lo scopo di una tortura che metta fine al dolore emotivo, come quello derivante da un forte senso di colpa o da un’incapacità a gestire ciò che si prova.
- Autolesionismo come piacere: sembra strano, ma procurarsi dolore può sfociare nel piacere. E non è nemmeno tanto raro. Per farti capire cosa intendo, ricorda la prima volta che hai assaggiato del peperoncino: con tutta probabilità non ti è piaciuto affatto, anzi ti potrebbe aver dato dolore o disgusto. Ma se oggi ti piace, se magari lo cerchi quando sei al ristorante, significa che pian piano hai continuato a usarlo e usarlo e usarlo… finché sei arrivato a considerarlo qualcosa di piacevole, da ricercare attivamente benché una cosa è rimasta uguale: il peperoncino pizzica, e un pizzico non è piacevole… o sì? Questo semplice esempio è solo per mostrare quanto sia comune che un comportamento doloroso possa essere ricercato. Lo stesso capita con gli atti autolesivi: da atto sedativo, autoregolatore, finisce per diventare un sottile piacere, un brivido trasgressivo, fino a una ricerca di sensazioni forti.
Ma come se ne esce?
Psicoterapia breve per atti autolesivi
Quando il problema si associa a un disturbo alimentare (secondo alcune statistiche si riscontra fin nel 70% dei casi – Nardone & Selekman, 2011), lavorando su di esso si riesce a far sparire anche gli atti autolesivi. Si può procedere anche all’inverso, ma togliendo solo l’autolesionismo difficilmente sparirà il disordine alimentare.
Quando si agisce solo su di essi, generalmente vengono usate delle manovre specifiche, calzate su ciò che mantiene il problema.
In linea generale, se l’autolesionismo è in essere soprattutto come forma di soppressione del dolore emotivo, ciò che si fa è aiutare la persona a esprimerlo e a imparare a gestirlo. Non è un lavoro lungo, di norma, e si può vedere un cambiamento significativo anche da un incontro all’altro.
Se invece si è già trasformato in una ricerca di piacere, bisogna aiutare la persona prima di tutto trasformando quel rito piacevole in qualcosa di sgradevole, e contemporaneamente guidandola a ricostruire degli altri piaceri nella propria vita, più sani e agognati.
Se ti rendi conto di aver bisogno di un aiuto in più, puoi rivolgerti ad uno Psicologo. Ricordati che puoi usufruire della terapia online, che ha la stessa efficacia di quella dal vivo.
Cosa puoi fare tu?
Sapere che un proprio caro pratica atti autolesivi, specie se è un figlio o una figlia adolescente, non è mai bello. Sapere che generalmente non c’è rischio per la vita può tranquillizzare, ma non deve far abbassare la guardia. Peraltro spesso non è facile capire se la persona sta o meno procurandosi delle ferite: solitamente si tende a farle in punti facilmente nascondibili da maniche e indumenti vari.
Ricorda sempre che la persona sta provando un disagio, una sofferenza, che lo porta a quell’atto, e che “qualcosa non funziona” anche quando è diventato una piacevole trasgressione. Benché la preoccupazione possa giustamente far salire il sangue alla testa, la cosa migliore è cercare di prendersi un momento con lei, assolutamente gettando ogni tono giudicante o accusatorio: sarebbe solo un pretesto per nasconderlo ancora di più.
Puoi esprimere la tua sincera preoccupazione e desiderio di capire, dando la disponibilità a parlare quando l’altro ne ha voglia, nei modi e nei tempi che desidera – senza ovviamente prendere sottogamba la cosa, ma anche senza creare forti pressioni. Se poi non riesci a comunicare con l’altro, puoi chiedere a uno psicologo un aiuto, per capire come interagire con la persona rispetto a questo problema.
Esistono diversi libri in materia, ma a volte sono troppo tecnici, altri un po’ troppo semplicisti. Uno che penso possa rivelarsi una buona via di mezzo è Autolesionismo. Quando la pelle è colpevole. Aiuta a farti un’idea generale di come funziona questo problema e di cosa puoi iniziare a fare.
Dr Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
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Bibliografia
Favaro, A., Ferrara, S. & Santonastaso, P. (2004). Impulsive and Compulsive Self-injurious Behavior and Eating Disorders. In J. L. Levit, A. Randy, M.D. Sansone & M.A.T. Leigh Cohn (Eds.), Self-Harm Behavior and Eating Disorsers. New York: Brunner/Routledge.
Madge, N. et al. (2008). Deliberate self-harm within an international community sample of young people: comparative findings from the Child & Adolescent Self-harm in Europe (CASE) Study. Journal of Child Psychology and Psychitraty, 49(6), 667-677.
Nardone, G. & Selekman, M. (2011). Uscire dalla trappola. Abbuffarsi vomitare torturarsi: la terapia in tempi brevi. Milano: Ponte alle Grazie.
Vanderhoff, H. A. & Lynn, S. J. (2001). The Assessment of Self-Mutilation. Journal of threat assessment, 1, 1, 91-109.