Quando Aiutare L’altro Fa Male: L’aiuto Accettato-Atteso-Preteso L’aiuto che non aiuta (immagine da Freepik)
Io non sono d’accordo con chi aiuta troppo i figli. E se è per questo, nemmeno con chi aiuta troppo amici, parenti e persino pazienti o utenti di un qualsivoglia servizio.
Ribadisco un punto di vista che oggi sarà sicuramente impopolare, ma che è drasticamente fondamentale per evitare di fare del male senza volerlo: aiutare eccessivamente gli altri è il modo migliore per renderli dei “disabili acquisiti”.
Perdonate il termine forte, ma è così. E oggi parlerò di questo e di una particolare trappola che ho osservato nel mio lavoro: quella dell’aiuto accettato-atteso-preteso.
Stato di crisi
Prendiamo i figli.
Probabilmente ci troviamo in parte a vivere ancora il rimbalzo di una mentalità educativa (quella dei nostri nonni – quando ancora erano solo genitori) paternalistica e dominata spesso da rigore e autoritarismo.
Ma in parte viviamo anche gli effetti dell’epoca contemporanea, dove i vincoli sono labili: tutto va bene, tutto va male, i punti fermi sono pochi. Si parla appunto di “società liquida” e a chi è interessato consiglio vivamente il libro di Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni, Stato di crisi.
Ora, il mix tra “Voglio dare ai miei figli ciò che non ho avuto io”, che spesso si fa erroneamente equivalere a “libertà”, e il non avere più limiti chiari e definiti, che altrettanto erroneamente fa pensare che non ci devono essere limiti, porta a un’orgia bulimica di quella libertà, in cui tutto è concesso e tutto deve essere concesso.
Aiutare o non aiutare?
«Ok Flavio, il concetto è interessante, ma che c’entra col fatto di non dover aiutare i figli o gli amici?»
Aiutare è un bene. Chiedere aiuto è un segno di maturità. Ma impedire di farsi del male è il peggiore dei sabotaggi che puoi attuare contro qualcuno.
«Se voglio bene a qualcuno lo aiuto!»*
No, in realtà non è così.
«Cioè mi stai dicendo che se voglio bene a qualcuno non lo aiuto?»
No, ti sto dicendo che è implicato un meccanismo molto sottile.
«Spiegamelo.»
Se vuoi bene a qualcuno significa che desideri che non stia male.
«Giusto.»
Se desideri che non stia male, vuol dire che desideri che possa superare le difficoltà.
«Giusto anche questo.»
E qui c’è il bivio. Se desideri che possa superare le difficoltà, puoi aiutarlo nell’impresa, o puoi lasciare che ce la faccia con le sue forze.
«In effetti…»
Tutte le volte che una persona riesce da sola in qualcosa, aumenta quella che Albert Bandura ha chiamato self-efficacy, la percezione della propria autoefficacia, strettamente collegata all’autostima (nemmeno un mese fa il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha consegnato ad Albert Bandura la Medaglia Nazionale per la Scienza). Se ti interessa approfondire questo concetto di autoefficacia, puoi leggere il libro di Bandura Il senso di autoefficacia.
Come vedi c’è una bella differenza tra “è in difficoltà quindi lo aiuto” e “è in difficoltà potrei aiutarlo”.
Sviluppare gli anticorpi psicologici
C’è una bellissima metafora contemporanea che parte da un fatto di cui avrai sicuramente sentito parlare: oggi siamo talmente tanto abituati a prendere antibiotici e medicinali che abbiamo addestrato i virus e i batteri a resistergli. Se rovesci la medaglia, puoi dire che abbiamo impedito al nostro corpo di sviluppare gli anticorpi necessari.
Tutte le volte che aiuti qualcuno, gli stai impedendo di sviluppare i suoi anticorpi psicologici: gli psico-anticorpi.
Questo è un disastro.
«Addirittura.»
Sì, addirittura. Perché nel momento in cui quella persona si troverà in difficoltà, e tu non ci sarai, si farà incredibilmente male.
Avere le skill
Non sono mai stato un amante dei videogame, ma quasi vent’anni fa mi capitò di giocare a un gioco in cui i personaggi potevano fare di tutto: coltivare, addestrare animali, costruire oggetti…
Queste capacità (chiamate col termine inglese skill) erano davvero molte e ciascuna aveva un punteggio da 0 a 100: più era alto, più eri bravo in quella capacità. Ovviamente, più usavi quella capacità, più il suo punteggio aumentava.
Ma c’era un fatto particolare.
Quando usavi un’abilità potevi avere successo o fallire. Ad esempio, potevi provare a costruire un oggetto ma non era detto che ci saresti riuscito, e quando fallivi perdevi il materiale con cui avevi provato a costruirlo, e di sicuro avevi perso tutto il tempo impiegato nel provarci.
Il fatto particolare era questo: il punteggio della tua abilità non cresceva quando riuscivi a costruire l’oggetto, cresceva quando fallivi.
La trappola dell’aiuto accettato-atteso-preteso
Recentemente, in un libro che sto scrivendo con due colleghe, ho esposto una mia riflessione su un meccanismo che possiamo osservare in certe relazioni di aiuto.
Quando aiuti qualcuno è probabile che quello decida di accettare il tuo aiuto. Siete nella Fase 1: la persona dice di sì al tuo gesto, e lo può fare in modo esplicito o implicito. A volte c’è chi accetta l’aiuto e contemporaneamente lo nega. Ma sta di fatto che, alla fine, quella persona si è fatta aiutare.
Non c’è niente di male in questo: in questo articolo, infatti, non voglio minimamente dire che non bisogna mai aiutare gli altri!
Il problema però comincia a sorgere quando tu continui ad aiutarlo, sia di tua spontanea volontà che sotto richiesta. In questo caso la vostra relazione è entrata nella Fase 2: l’aiuto adesso è atteso. Significa che l’altra persona, di fronte a quel tipo di difficoltà, si aspetta che tu arriverai ad aiutarla.
E dato che l’uomo è capace di processi di generalizzazione, presto la persona potrebbe aspettarsi il tuo aiuto non solo in quell’ambito ma anche in altri, fino ad attendere il tuo aiuto di fronte a qualunque difficoltà.
Infine, arriviamo all’ultima fase: l’aiuto diventa preteso. La persona, adesso, non solo attende il tuo aiuto, lo pretende. Se tu non corri ad aiutarla può risentirsi, provare sentimenti di rabbia o persino di disperazione.
Come dargli torto? Sei stata la sua stampella per tutto questo tempo e adesso, di punto in bianco, ti vorresti negare?
Aiutare gli altri in modo sano
Che siano figli, amici, parenti, o persino pazienti, il modo migliore di aiutare è facendolo a salti e a distanza.
È una regola generale e, pertanto, da modellare e adattare di situazione in situazione, ma può essere presa come una importante linea guida.
Aiutare gli altri a salti significa che devi limitare la tua presenza attiva.
La cosa più difficile è quando hai una soluzione a portata di mano: come puoi limitarti? Se l’altro sta affrontando un problema e tu sai già la soluzione, perché negargliela? O se hai una miglioria in mente, che aiuterà la persona a ottenere più benefici, perché non dirgliela?
Il perché è semplice: perché con le migliori intenzioni otterrai gli effetti peggiori, come diceva Oscar Wilde.
Puoi aiutare la persona e risolvergli quel problema, o migliorare la soluzione e l’idea che ha avuto, ma facendo così le stai impedendo di creare i suoi psico-anticorpi. In altre parole, stai impedendo alla sua skill di aumentare di punteggio.
Aiutare gli altri a distanza, inoltre, significa un’altra cosa rispetto a quello che pensi. Non significa, infatti, muovere i fili affinché l’altro ottenga il tuo aiuto senza accorgersene: anche in questo caso non avrebbe raggiunto il risultato grazie alle sue capacità, e di conseguenza i suoi psico-anticorpi non si attiverebbero, non guadagnerebbe un bel niente in auto-efficacia.
Il dolore aiuta a crescere
Te lo dico in altri termini: per crescere devi prendere un sacco di schiaffi.
Brutale, ma onesto.
Ti devi fare male.
Anzi, sono sicuro che se ti sei fatto male nella vita, ed è stato proprio quel farti male a farti diventare chi sei.
Purtroppo questo ti può portare a un ragionamento sbagliato: pensare che, visto che tu sai cos’è la sofferenza, non vuoi che gli altri a cui tieni soffrano come te.
Sbagliato.
Se sei diventato forte in qualcosa è stato proprio grazie a quegli schiaffi, a quelle sconfitte, a quelle perdite che hai subito.
Non negare questa possibilità agli altri. Semmai, stagli vicino dopo che si sono fatti male, per consolarli, per dargli una spalla su cui piangere, per farli sfogare. Aiutarli a distanza non significa abbandonarli, ma osservarli da lontano e permettergli di scoprire le proprie capacità – e, così facendo, scoprirai anche tu quali sono.
Conclusioni
Il discorso è ampio, l’articolo è stato lungo, e servirebbero ancora molte pagine per parlarne in modo appropriato, ma spero che ti abbia dato alcuni spunti di riflessione e che ti sia di aiuto ad essere veramente d’aiuto.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve Strategica
e Ipnosi
*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.