Sull’aspettativa campano molte istituzioni. Comprensibile se, come scrive Matteo Rampin, non viviamo per essere felici, ma siamo felici per vivere.
«In che senso?»
Nel senso che la ricerca e la conquista della felicità è ciò che fa da contrappeso alle normali vicissitudini della vita.
Il problema, però, è quando la nostra felicità dipende dal nostro rapporto con gli altri.
«Non deve essere così?»
Oh no, sì che deve. Bada bene: dovrebbe in senso sano e salutare, e non trasformandosi in dipendenza affettiva (le note donne che amano troppo), relazionale o materiale dall’altro. La pena, altrimenti, è la perdita di quell’autonomia di cui ogni uomo e donna hanno bisogno.
No, il problema non è se la felicità debba dipendere (anche) dal nostro rapporto con gli altri, ma in che modo questo avviene. E in tal senso, uno dei problemi più comuni è quello legato alle aspettative.
«Cioè?»
Ognuno di noi ha una mappa del mondo, un sistema di credenze e convinzioni su come le cose sono e su come dovrebbero essere e in base alla quale agiamo. Il nostro cervello, per fortuna, ci permette una certa flessibilità, che ci garantisce la possibilità di pensare cosa sta pensando l’altro, cioè di capire il suo punto di vista.
Ma cosa succede quando vogliamo inculcare il nostro punto di vista nella mente dell’altro?
«Intendi dire cosa succede quando vogliamo convincerlo di qualcosa?»
No, intendo dire: cosa succede quando vediamo il mondo in un modo, e ci aspettiamo che l’altro lo veda nello stesso modo?
La filosofia costruttivista ci ha dato una grande responsabilità: stabilendo che ciascuno di noi costruisce la realtà in base alle proprie percezioni, cioè che ciascuno di noi vede e vive la propria realtà (ovviamente con un generico accordo su tali visioni e vissuti), ci ha fatto realizzare che la responsabilità di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è nostra. Per dirla con le parole di Churchill: “Un ottimista vede in ogni difficoltà un’opportunità. Un pessimista vede in ogni opportunità una difficoltà”.
Ma se siamo noi artefici del modo in cui percepiamo e reagiamo a ciò che ci accade, siamo anche artefici di ciò che pensiamo che l’altro pensi.
La lettura del pensiero è un rischio nascosto dietro ogni interazione: comunichiamo con l’altro, ci sentiamo (più o meno) capiti, lo capiamo (perfettamente!) e traiamo la considerazione implicita che lui/lei la pensi in un certo modo, quello che ci fa più comodo o piacere.
Questo è un errore nel breve e nel lungo termine.
Nel breve termine rischiamo di attribuire pensieri e stati d’animo che l’altro nemmeno si sogna di avere.
Nel lungo termine, però, immaginiamo scenari e messe in atto che in realtà non hanno nemmeno una base da cui partire. E così lanciamo l’impresa senza i finanziatori, decolliamo senza copilota, andiamo in scena senza la spalla, tutto fatto con la convinzione che l’altro doveva essere accanto a noi: lo aveva detto.
Questa è una trappola molto comune e alla base di fraintendimenti e rotture tra colleghi, amici e, potete immaginarlo, coppie. Pensare che l’altro la pensi come noi e che quindi agisca di conseguenza, è un pensiero nostro, non suo!
In realtà, quando si riuscisse a condurre un’indagine obiettiva, scopriremmo che l’altro forse non aveva affatto detto ciò che noi pensavamo. Subito però ci barricheremmo dietro il “Sì, ma l’avevi lasciato intendere”.
Chi è più capace, a questo punto, fa un passo indietro e riesce a dirsi la frase giusta: “È ciò che io avevo inteso, cioè ciò che io mi aspettavo“.
Qui si smaschera il gioco d’ombre dell’aspettativa. Vediamo come subdolamente questa aveva vestito la realtà con un tatuaggio lavabile, che alla prima prova del tempo è stato sciacquato via dai fatti senza lasciare traccia.
«E come ci difendiamo da questo continuo attribuire agli altri le nostre aspettative?»
Heinz von Foerster, filosofo cibernetico (nel senso che approfondì e sviluppò la scienza che studia i modi in cui i sistemi viventi si auto-organizzano – mi spiace deludere chi per un attimo ha pensato si trattasse di un cyborg intellettualoide), elaborò un semplice ma efficace imperativo, l’imperativo etico, che recita: “Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte”.
Noi possiamo anticipare questa utile indicazione e dire: “Conosci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte”.
«Cosa significa?»
Significa che di fronte a una persona possiamo chiederci: “Come vede lui le cose? Qual è il suo punto di vista? E questo punto di vista è davvero il suo o ci sto mettendo del mio? Come agirebbe rispetto a questa cosa che io penso?” e così via.
Subito dopo, poi, torneremo da von Foerster e agiremo, nel senso che verificheremo se le nostre considerazioni sono corrette, ad esempio chiedendo conferma.
Questo è probabilmente il processo più semplice e immediato per non farsi tradire dalle proprie aspettative, cioè per evitare di pensare che ciò che pensiamo è pensato dagli altri. D’altronde, siamo simili a tutti, sì, ma uguali a nessuno.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per approfondire
Nardone, G. (2013). Psicotrappole. Milano: Ponte alle Grazie.
Rampin, M. (2014). Nel mezzo del casin di nostra vita? Milano: Ponte alle Grazie.
von Foerster, H. (1987). Sistemi che osservano. Roma: Astrolabio.
Watzlawick, P. (a cura di). (1988). La realtà inventata. Contributi al costruttivismo radicale. Milano: Feltrinelli.