– Ma davvero vuole morire?
– Nessuno si suicida perché vuole morire.
– E allora perché lo fa?
– Perché vuole fermare il dolore.
(Tiffanie DeBartolo)
Questo scorcio, tratto da un lavoro di Tiffanie DeBartolo (purtroppo, per quanto ne so, non ancora tradotto in italiano), rappresenta molto bene la motivazione chiave del suicidarsi: fermare il dolore. Ma potremmo anche ampliarlo un poco e dare alla motivazione di chi desidera morire una visione più ampia: uscire da una situazione apparentemente senza uscite.
Ma se le uscite ci fossero?
L’esperimento del nuoto forzato
Negli anni ’70 venne condotto un esperimento a dir poco terrificante, ma da cui si possono trarre alcune informazioni sul senso di disperazione. Il Dr Porsolt e il suo gruppo elaborarono il cosiddetto “esperimento del nuoto forzato”, conosciuto anche come “test della disperazione comportamentale”. In pratica dei topolini venivano messi all’interno di una scatola di vetro o di plastica riempita d’acqua, dalla quale non c’era possibilità di uscita. Alcuni di essi, dopo un po’ che nuotavano, venivano tirati momentaneamente fuori, e poi rimessi all’interno. Altri invece venivano lasciati semplicemente lì.
Purtroppo, tutti i topolini venivano lasciati morire. Quello che si osservò fu una differenza significativa tra i due gruppi. Infatti, i topolini che erano stati tirati fuori nuotavano per molto più tempo degli altri, che invece si lasciavano morire più velocemente. In pratica, i primi avevano una speranza: forse qualcosa li avrebbe tirati fuori, presto o tardi.
Fare sempre la stessa cosa: l’illusione di alternative
Sai qual è un obiettivo della psicoterapia? Aumentare le possibilità di scelta.
Uno dei motivi per cui non riusciamo a risolvere i nostri problemi è che continuiamo a fare e a vedere certe cose nello stesso modo. E purtroppo non basta esserne consapevoli per smettere e cominciare a fare qualcosa di diverso, perché può entrare in gioco il concetto di “illusione di alternative”.
Un’illusione di alternative, spiegato egregiamente dal terapeuta Paul Watzlawick, si ha quando facciamo una serie di cose solo apparentemente diverse: infatti, in realtà rientrano tutte nello stesso insieme. Ti faccio un esempio un po’ semplice, ma chiaro: è come se tu scegliessi di mangiare oggi una bistecca, domani un filetto, dopodomani degli straccetti e successivamente un arrosto. In teoria stai mangiando sempre una cosa diversa, ma in
pratica stai mangiando sempre carne.
Adesso sposta questo esempio sul piano comportamentale: a volte facciamo cose in apparenza molto diverse tra loro, ma non ci rendiamo conto che rientrano sempre nello stesso insieme. E se per la bistecca, il filetto, gli straccetti e l’arrosto è abbastanza facile, ragionandoci, capire che si tratta sempre di carne, per i comportamenti non è così immediato. A volte anche cose opposte tra loro rientrano nello stesso insieme.
Il ruolo dello psicoterapeuta è proprio questo: una persona esterna che è “fuori” dal quell’insieme di comportamenti e percezioni disfunzionali in cui siamo caduti, che vede oltre le illusioni di alternative in cui ci dibattiamo, e che può guidarci per uscirne fuori. In realtà è lo stesso ruolo che hanno amici o altre persone, con la differenza che, da un lato, è una persona decisamente esterna, che assume un ruolo diverso per noi (non è un amico o un parente) e che, dall’altro, ha ovviamente studiato per questo.
Learned helplessness: il senso di impotenza appreso
«Flavio, ma quando ci parli del suicidio?»
Credi che non lo stia facendo? Non voglio scrivere un articolo su “quanto sia doloroso”, o sul “ce la puoi fare”, o ancora sul “parlane con qualcuno”. Credo che queste cose, soprattutto oggi, siano note alla maggior parte di quelle persone che vivono sul baratro, a un passo dal fare il passo. Io vorrei farti vedere altro.
Un concetto che, se ci si pensa, è incredibile è quello del learned helplessness: il senso di impotenza appreso. Fu studiato da Martin Seligman, oggi noto per il concetto di “psicologia positiva” ma che fu già presidente dell’American Psychological Association nonché, anni prima, vincitore di un premio datogli dalla stessa per le importanti scoperte fatte nelle primissime fasi della sua carriera.
Quello che ci interessa di questo concetto è il fatto che il senso di impotenza può essere, appunto, appreso. Non è lì fuori, dopotutto, no? Se ci pensi, là fuori non c’è “l’impotenza”. Quest’ultima è solo una costruzione mentale, è un modo di vedere e di fare le cose; un modo che, di continuo, dà sempre gli stessi risultati. E se una cosa può essere appresa, si può apprendere anche il suo opposto.
«Ma io ho provato di tutto. E ho pensato di tutto. Ho pensato a tutte le possibilità, mi sono scervellato, ho cercato di capire cosa fare, come farlo, ho tentato… ma niente. Non c’è un risultato. Non c’è una via di uscita. Non c’è uno sperimentatore che prima o poi mi tirerà fuori dalla scatola piena d’acqua.»*
Non c’è? No, forse no, ma c’è una differenza con l’esempio di prima: tu non sei un topo.
Un rimedio permanente
Sembra che sia stato il presentatore Phil Donahue a dare questa definizione del suicidio: “Un rimedio permanente a un problema temporaneo”.
E il problema è che chi vive nello stato che può condurre al suicidio pensa che ad essere permanente sia il problema. Anzi, dal suo punto di vista ne è del tutto convinto, quella che è una percezione soggettiva diventa ai suoi occhi una immodificabile realtà.
Questa è una condizione tipica dell’uomo, in realtà. Se ci pensi, per secoli o millenni abbiamo ritenuto che la Terra fosse piatta o che fosse al centro dell’Universo, o che certe malattie si attaccassero con lo sguardo, o che fosse impossibile raggiungere la Luna o capire certi misteri del mondo, del corpo e della mente delle persone. Eppure, poi, a un certo punto, è arrivato qualcuno che ha mostrato semplicemente che non era così, aprendo la possibilità a nuove strade.
Ricordi il ruolo dello psicoterapeuta?
Diverse volte mi è capitato di vedere persone che avevano tentato il suicidio, o che stavano seriamente meditando di farlo, e il senso di impotenza, di mancanza di fiducia, o l’incapacità di vedere copioni alternativi, o strategie di uscita, o possibilità di scelta, erano le cose che li accomunavano. Il sentirsi topolini in una vasca colma d’acqua, dalle pareti troppo alte da raggiungere.
Se però ti rendi conto che non sei un topolino, che nessuno ci ha davvero messo in quella vasca, che non vedere possibilità non significa che non esistano, allora potrai cominciare a capire una cosa: che lo sperimentatore fuori dalla vasca, sei tu.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve
e Ipnosi
*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.