“Se lo psicologo non mi dà consigli che ci vado a fare?” Te lo sei mai chiesto? Ti rispondo con una citazione anonima, che dice, “I consigli sono come il sole d’inverno: possono illuminare ma non riscaldano”. Nell’immaginario a volte aleggia l’idea che dallo psicologo avvenga qualcosa di quasi magico, mistico, criptico. In realtà quello che avviene dallo psicologo è più “cinematografico” che mistico.
Infatti, metaforicamente parlando, lo psicologo è come un regista e tu sei l’attore protagonista: lui ti osserva con attenzione mentre ti muovi sulla tua scena, mentre ti racconti, e da fuori ha la possibilità di vedere quali sono i tuoi punti di forza, quali i punti deboli e quali le risorse che puoi liberare e di cui puoi disporre per superare i tuoi blocchi. Il regista è lì, ti osserva e ti dà degli input e delle indicazioni che, seguiti, ti porteranno a sciogliere blocchi e nodi che ti limitano. E questo processo non avviene solo sulla scena, ma anche al di fuori di essa, in modo che quanto appreso sia replicabile nella vita quotidiana. Il cosiddetto learning by doing, ben lontano da un semplice “consiglio”.
Sono diversi i motivi per cui gli psicologi non danno consigli. Ma forse il primo tra tutti è perché non esistono risposte universali. Ciò che vale per uno non sempre è valido per un altro. La parola “consiglio” è strettamente legata all’esperienza personale. D’altra parte, lo scopo dello psicologo non è risolvere un problema al posto del paziente. Potremmo dire che offre una mappa che aiuti il paziente a orientarsi, piuttosto che contrassegnare la destinazione o il percorso da seguire sulla stessa. E le Terapie Brevi, da sempre, ci insegnano che “la mappa non è il territorio”…
Se non dà consigli, cosa fa un Terapeuta Breve?
Io penso che il senso del lavoro di uno psicologo non sia dare consigli, ma favorire nuove domande, perché questo permette di rendere la stanza di terapia uno spazio diverso da tanti altri. Forse è proprio il fare domande che, anche per l’altra persona, può aprire nuove prospettive. Nuove domande generano nuove riflessioni e, potenzialmente, nuove risposte. Una buona domanda può farci chiedere qualcosa che non ci eravamo mai chiesti prima e darci nuovi sguardi su qualcosa che abbiamo sempre guardato, raccontato e vissuto in un solo modo, sempre identico a se stesso.
Al contrario un consiglio chiude, impone, prescrive, appiccica prepotentemente qualcosa sulla persona che lo riceve, senza tenere conto di lei. Una domanda lascia a quella persona la possibilità di guardarsi, di sostare, di riflettere e di scegliere quello che, momento per momento, ha più senso per sé. Le Terapie Brevi, invece, ci ricordano sempre l’importanza della centralità del paziente nel lavoro terapeutico.
Sapere quali sono le aspettative, gli obiettivi e le preferenze di un paziente per un Terapeuta Breve è davvero molto importante. Non a caso in una recente ricerca, in cui Mick Cooper e colleghi chiedono ai clienti in terapia come hanno sperimentato la richiesta di quali fossero le loro preferenze. E loro hanno risposto qualcosa di davvero sorprendente.
“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”
Dalla ricerca è emerso che il fatto di chiedere ai clienti i loro bisogni rispetto alla terapia li ha resi più fiduciosi del terapeuta e più ascoltati, indipendentemente dal fatto che sapessero o meno cosa volevano in quel momento specifico. Cooper commenta: “Per me c’è un’enorme differenza tra qualcuno che mi dice: “Stiamo facendo questo…” e qualcuno che dice: “Perché non proviamo questo? Fammi sapere se vuoi fare qualcosa di diverso”. Con quest’ultima espressione sembra che ci sia molto più spazio, libertà, rispetto.
In realtà non mi dispiace che mi venga detto cosa fare la maggior parte delle volte – e a volte lo voglio davvero – ma c’è un sacco di differenza, secondo me, a seconda che io senta o meno di poter dire la mia se lo desidero. Perché se posso dare un input, non sto davvero cedendo il controllo. Ho ancora voce in capitolo su quello che sta succedendo. Sembra che qualcuno si stia temporaneamente prendendo cura di me, senza togliermi i diritti e la capacità di autodeterminarmi. Una cosa che ho davvero imparato nel lavorare con le preferenze del cliente è che non si tratta solo di quei momenti lì per lì, ma di ciò che si prepara per la terapia in generale. Si tratta di creare un’atmosfera, una cultura, una relazione fatta di collaborazione e partnership. Quindi, se chiedi a un cliente cosa vuole, con delicatezza, e lui dice che non lo sa, non scoraggiarti: può succedere spesso, ma non significa necessariamente che fosse la domanda sbagliata da fare. Forse il cliente non era in grado rispondere in quel momento.”
I clienti potrebbero aver bisogno di un po’ di tempo per esprimere le loro preferenze e potrebbero aver bisogno di provare alcune cose per scoprire cosa funziona per loro. Infatti, nella loro ricerca qualitativa, Cooper e colleghi hanno scoperto che molte preferenze dei clienti emergevano da ciò che accadeva nelle sedute stesse. Ai clienti, ad esempio, potrebbe venir chiesto: “Immagina che avvenga un miracolo durante la notte, mentre stai dormendo, e il tuo problema viene risolto. Quali sono le differenze che noterai da domani?” E solo allora potrebbero pensare: “Wow, è stato davvero utile”. Quindi avere dei momenti regolari in cui chiedere ai clienti le loro preferenze e quelle nuove che potrebbero via via essere emerse può essere davvero una buona pratica nel lavoro terapeutico.
Dr Flavio Cannistrà
Co-Fondatore dell’Italian Center for Single Session Therapy
co-Direttore dell’Istituto ICNOS
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
Bibliografia
Cooper, M. (2023). Preference Work: Notes from the Other Side. Sito: https://pluralisticpractice.com/main-blog/personal/preference-work-notes-from-the-other-side/
Cooper, M. et al. (2022). Patient perspectives on working with preferences in psychotherapy: A consensual qualitative research study. Psychotherapy Research, DOI: https://doi.org/10.1080/10503307.2022.2161967