Cibo per la mente: gli effetti della dieta sulla psiche

Psicoterapia breve strategica
Psicologia e dieta: quali sono gli effetti?

Hai mai notato che nel momento in cui cominci una dieta, tutto ciò che vuoi fare è mangiare?

Questa domanda introduce un argomento che ha interessato psicologi e professionisti di diversi campi: gli effetti psicologici delle diete.

E con un affascinante quanto terribile studio pioneristico, fatto durante la Seconda Guerra Mondiale, diamo il via al primo di due articoli dedicati al rapporto tra dieta e mente, che pubblicherò questa settimana.

Il Minnesota Starvation Experiment

Psicoterapeuta Roma
Il TIME dedicò una copertina ad Ancel Keys, per l’importanza dei suoi studi.

È il 1944, siamo all’apice della Seconda Guerra Mondiale e c’è un grande problema da risolvere: far fronte alla fame.

In questo contesto nasce il Minnesota Starvation Experiment di Ancel Keys, biologo e fisiologo americano che tra le altre cose visse quasi trentanni nel nostro Paese, a Pioppi (in provincia di Salerno), decretando, dopo lunghe osservazioni, che la dieta mediterranea apporta notevoli benefici al corpo e alle mente dell’uomo.

Ma torniamo al Minnesota Starvation Experiment.

Keys voleva capire gli effetti fisici e psichici dovuti a una protratta riduzione del cibo, per scoprire come porvi rimedio. Questo sarebbe stato fondamentale sia per il recupero delle popolazioni affamate dalla guerra, sia per migliorare le prestazioni e la resistenza dei soldati impegnati al fronte.

Vennero scelti una trentina di volontari, tutti uomini, monitorati presso l’Università del Minnesota per oltre un anno.

Nei primi 3 mesi vennero regolarizzate le loro abitudini alimentari, somministrando 3200 calorie giornaliere e permettendogli di raggiungere il peso forma. A questo scopo vennero presi i loro parametri fisiologici e psicologici, così da poter fare un successivo confronto.

Nei 6 mesi successivi i volontari vennero letteralmente affamati: la dose si abbassò a 1560 calorie giornaliere, meno della metà, con una conseguente riduzione del peso corporeo pari al 24,5%. In altre parole, un uomo di sessantacinque chili sarebbe arrivato a pesarne circa quarantotto. Inoltre i volontari continuarono a sostenere un ritmo di vita “normale”: le loro attività, cioè, non vennero altrettanto drasticamente limitate.

Psicologo Roma
“Dan Miller durante le 24 settimane di inedia e nel successivo periodo di recupero. La perdita del 24,5% del suo peso corporeo fu un fenomeno tipico in tutti i volontari.”

Infine, negli ultimi 3 mesi vennero riportati al loro peso forma attraverso una dieta controllata, in modo da poter capire quali erano i modi migliori per ripristinare le condizioni fisiche dei volontari.

Seguirono 2 mesi in cui, pur venendo sempre monitorati, gli uomini poterono mangiare tutto ciò che volevano.

Lo studio è diventato storico, tanto che il libro che ne presentò i risultati nel 1940, The Biology of Human Starvation, è ancora in vendita (ma, a meno che non siate dei collezionisti di storici tomi, vi sconsiglio di comprarlo: centocinquanta euro per oltre milletrecento pagine in inglese).

 

Gli effetti psico-fisici della dieta

Senza voler fare un torto alle migliaia di pagine scritte, possiamo riassumerli in questa forma:

    1. Il digiuno impatta negativamente sulla psiche: i volontari divennero tutti fortemente depressi, ansiosi e irritabili, con reazioni di stress che portarono persino a gesti estremi: ad esempio, benché si tratti di un caso isolato, uno dei soggetti si mozzò tre dita con un’accetta (e, no, non se le mangiò, se è questo che vi stavate chiedendo).Inoltre il cibo diventò ovviamente un’ossessione, centro dei pensieri e persino delle azioni degli affamati: questi, infatti, ne parlavano in continuazione, ritagliavano ricette e addirittura facevano sogni sul mangiare. Persino il sesso aveva meno importanza, e le capacità di attenzione, concentrazione e comprensione vennero notevolmente compromesse.

      Nota interessante: fisicamente ci furono alcuni “imbruttimenti“, con gonfiori a ventre e arti. Come dire: dieta estrema non significa estrema bellezza.

 

    1. Ridurre il cibo della metà non vuol dire dimagrire della metà: questa perifrasi è per dire che seppure inizialmente i volontari persero circa un chilo al giorno (all’inizio dei 6 mesi di dieta), successivamente il dimagrimento fu del tutto irregolare e imprevedibile: non è quindi corretto pensare che affamarsi sia il modo migliore per perdere peso velocemente.Addirittura, si constatò che per continuare a dimagrire si sarebbe dovuto continuare a ridurre il cibo, anziché fermarsi a uno standard di 1560 calorie, perché altrimenti il corpo, da solo, non avrebbe continuato a perdere peso. Un dietista saprà spiegare meglio di me questo principio, mentre io mi limito a rifarmi al concetto di omeostasi: il corpo tende a regolarsi al fine di mantenere un equilibrio (e quindi anche un peso) costante. Naturalmente va da sé che affamarsi sempre più equivale a stare sempre più (fisicamente) male, a diventare sempre più (fisicamente) brutti, e rendersi sempre più (fisicamente) morti.

      Oltre a questo, in molti casi si riscontrò un’alta ritenzione idrica (con conseguente ulteriore imbruttimento) e un forte aumento di cortisolo (cosa che, guarda caso, si riscontra appunto nelle situazioni di stress).

 

  1. Dalla fame all’abbuffata: nel periodo finale, cioè i 3 mesi in cui gli uomini poterono mangiare tutto ciò che volevano, si osservarono quasi totalmente dei casi di binge eating, cioè di abbuffate incontrollate: uno di loro, ad esempio, mangiò in un solo giorno i pasti di quattro uomini; altri divoravano il cibo senza alcun piacere, arrivando a sentirsi male ma senza mai saziarsi. Alcuni addirittura stavano continuando le condotte di binge eating cinque mesi dopo la fine dello studio. Come se non bastasse, alla faccia della dieta, giunti fine dell’anno di studio tutti gli uomini avevano preso qualche chilo in più rispetto a quando avevano iniziato.

Conclusioni

Oggi sappiamo molte cose in più sulla dieta, sul cibo, sul corpo e sulla mente, e molte ricerche e studi sono partite proprio da questo. Se volessimo tracciare una conclusione sintetica potremmo dire che è evidente come la dieta non sia solo una questione di calcoli calorici.

In un recente libro, Dieta o non dieta, una serie di figure professionali diverse (psicologi, medici, nutrizionisti, dietisti ecc.) si sono riuniti per sottolineare esattamente questo punto: non si può scindere corpo e mente, nemmeno nel campo della dieta. Come dire: mangiare non equivale a ingerire, tanto quanto affamarsi non equivale a dimagrire.

Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia

Riferimenti bibliografici
Keys, A. et al. (1950). The Biology of Human Starvation. Minneapolis: University of Minnesota Press.
Nardone, G., Valteroni, E. (a cura di). (2014). Dieta o non dieta? Milano: Ponte alle Grazie.