Quando ero piccolo ero Lo Scalmanato. Nessuno ci crederebbe adesso: serafico, sereno, deciso ma con tranquillità. Eppure c’è stato un tempo in cui le cose non erano così e l’etichetta di “bambino iperattivo” mi veniva impressa addosso come un tatuaggio. Un tatuaggio lavabile, per fortuna.
Oggi se sei un bambino iperattivo ti danno il Ritalin. Ti piovono addosso etichette come sassi, le ferite che lasciano sono profonde e le cicatrici tutt’altro che lavabili.
A volte (anzi, spesso) ci comportiamo secondo dei miti. Sono stati definiti ‘miti’: “un certo numero di opinioni ben sistematizzate, condivise […], concernenti i reciproci ruoli […] e la natura della loro relazione” (Ferreira, 1966). Le parentesi quadre hanno tolto di mezzo solo le parole “da tutta la famiglia” e “familiari”, poiché Ferreira all’epoca indagava gli specifici miti familiari.
Ma quante volte, nella vita di tutti i giorni, assegniamo a qualcuno un’etichetta che finisce per diventare un mito? E quante volte (re)agiamo in base a quel mito, che altri condividono con noi? E, forse l’aspetto più terribile, quante volte agiamo in un modo perché crediamo a un certo mito di noi stessi?
Col mio lavoro, spesso con quello praticato presso ambienti istituzionalizzati, mi capita di vedere dei miti, dei condannati, persone infilate in una strada a senso unico che pare portare in una sola direzione.
A volte l’etichetta è attaccata bene, magari anche a causa di una diagnosi, che non è necessariamente sbagliata, ma che finisce per trasformarsi in una sorta di lista degli ingredienti che ti caratterizzano e di cui non potrai mai più fare a meno.
“Sei una donna, adulta, libera professionista, sposata e bipolare“. Stamp! L’etichetta si imprime come un marchio sulla fronte e non riesci più a togliertela.
Figurati poi se vai a controllare su internet: ogni notizia è una passata di Super Attak sulla tua etichetta. E così ti dicono qual è il tuo mito, e ci credi, e ci convivi per l’eternità, come un inquilino interiore che bussa di continuo per ricordarti che è lì.
E in Italia siamo tutti un po’ psicologi – e tutti un po’ counselor, a quanto pare. Quindi basta poco e le diagnosi vengono regalate da chiunque come caramelle: “Suo figlio è dislessico”, “Suo figlio ha un disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività”, “Suo figlio è autistico”. Poco importa se per fare certe diagnosi occorrerebbe una valutazione accurata di un professionista riconosciuto, come uno psicologo iscritto all’Albo ed esperto in psicodiagnosi. Persino io, che sono psicologo, quando lo ritengo necessario mi avvalgo delle collaborazioni di miei colleghi formati in specifici campi. Come dire: a ciascuno il suo. Il rischio di creare un mito è un prezzo troppo alto da pagare per commettere errori.
E nella vita di tutti i giorni? Quali sono i miti che portiamo avanti? Chi crediamo che gli altri siano? E chi crediamo di essere noi stessi? Quanto, di ciò che facciamo, è determinato dal mito che ci siamo o che ci hanno costruito attorno?
A volte basta poco, un piccolo cambiamento, per iniziare a trasformare e a cancellare il nostro mito disfunzionale.
Parafrasando Paul Watzlawick: la realtà è in buona parte ciò che volete che sia.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Riferimenti bibliografici
Ferreira, A.J. (1966). Family Myths. In Psychiatric Research Report, 20, pp. 85-90.
Watzlawick, P. (2007). Guardarsi dentro rende ciechi. Milano: Ponte alle Grazie.
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