Dopo il piccolo stacco della scorsa settimana continuiamo con il “Settembre No Stress“, con un ultimo articolo dedicato a utili soluzioni strategiche.Qualcuno ha pensato che siamo macchine. Un bellissimo documentario sul corpo umano a cura di Piero Angela si chiamava La macchina meravigliosa, ma dubito che il giornalista intendesse un’analogia così forte con la meccanica.
Non siamo macchine, meno che mai sul lavoro. Che significa? Che abbiamo bisogno di pause.
Lo sappiamo, così come sappiamo di non essere macchine, eppure ce ne scordiamo spesso. Una conferma viene dalla crescente attenzione data al workaholism, o dipendenza dal lavoro, condizione che porta a bruciare più o meno velocemente le proprie risorse fisiche e mentali – per non parlare di quelle sociali, economiche e familiari. E se esiste addirittura un libro che si chiama In pausa. Come l’ossessione per il fare sta distruggendo le nostre menti, beh, qualche domanda in proposito dobbiamo farcela.
Finalmente uno studio rigoroso, pubblicato sulla rivista Symbolic Interaction e condotto da Pernille Strøbæk dell’Università di Copenaghen, mostra che la pausa caffè fa bene al lavoro: diminuisce lo stress e migliora la produttività.
«Quindi dobbiamo bere tanto caffè?».
Non travisiamo: non è il caffè a fare bene, ma la pausa e tutto ciò che la costituisce.
«Spiegati meglio».
Allora, innanzitutto precisiamo una cosa: gli scienziati non l’hanno scoperto mica ora, sul finire del 2013, che la pausa caffè fa bene. Tutta una serie di studi lo dimostrano, concentrandosi su prospettive diverse.
Ad esempio, staccare la spina e pensare ad altro lasciando il compito in sospeso, permette di mettere il cervello tra parentesi, in modo da aiutarlo a ricaricare la batteria; inoltre, contrariamente a ciò che si pensa, si può sfruttare il cosiddetto effetto Zeigarnik per assicurarsi che il compito lasciato a metà non sia meno produttivo. Questa è una cosa che giornalisti e copywriter sanno particolarmente bene: dopo aver scritto un testo lo mettono da parte prima di pensare a una revisione.
Altri ricercatori hanno mostrato l’importanza di uno stacco fisico, cioè di alzarsi dalla sedia e fare un po’ di attività motoria, o una corsetta, o anche solo due passi. Avete presente le scene di quei film dove i dipendenti – spesso giapponesi – sono in terrazzo a fare stretching? Ecco, non sono pazzi: stanno sfruttando dei principi fondamentali per lavorare e vivere meglio (certo, che poi alcuni aspetti della loro vita sociale extra-lavorativa annullino tali effetti è un’altra storia).
Insomma, staccare fa decisamente bene.
E i ricercatori danesi hanno aggiunto un nuovo motivo per farlo: la socializzazione. Staccare per una pausa caffè (e farlo 15 minuti ogni 90-120, aggiungo io), scambiando qualche opinione con i colleghi, aiuta a ridurre lo stress, a rimpastare le idee, a sfogare frustrazioni, ad alleggerire il carico. Alla base funzionano principi non troppo diversi da quelli di certi gruppi terapeutici (poi, naturalmente, per tutta una serie di motivi più o meno scontati, questi sono tutt’altra cosa) e gli effetti si ripercuotono sul proprio lavoro e, da qui, sul resto della propria giornata.
Una domanda del libro In pausa è: «Ma perché allora ci riempiamo le giornate di impegni?».
Una delle ragioni è che spesso la pausa è trascurata. Spesso ci diciamo: «Finisco tutto e poi mi concedo un totale relax alla fine», non considerando che, appunto, non siamo macchine: se per due ore di lavoro bastano 15 minuti di pausa, per quattro ore possono non esserne sufficienti 30 – e infatti la pausa pranzo dura solitamente un’ora.
E tu ti concedi una pausa? Hai trovato beneficio dal confronto con i colleghi? O hai elaborato dei modi particolari per staccare la spina? Commenta qui sotto e condividi le tue strategie!
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per approfondimenti:
Smart, A. (2014). In pausa. Come l’ossessione per il fare sta distruggendo le nostre menti. Milano: Indiana.
Strøbæk, P.S. (2013). Let’s Have a Cup of Coffee! Coffee and Coping Communities at Work. In Symbolic Interaction, vol. 36, 3.
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