Joe Simpson si sente spacciato.
È un alpinista esperto, ma la sua situazione è tragica. Lui e il suo compagno Simon Yates stavano scalando una parete delle Ande peruviane quando Joe è scivolato fratturandosi il ginocchio. Non potevano fare altro che tornare indietro.
Ma a quel punto l’incidente: la parete da cui scendevano si fa sempre più ripida, poi si apre sotto di loro e Joe precipita nel vuoto. La corda che lo lega a Simon lo salva, ma Joe sbatte la testa e sviene, oscillando nel vuoto, appeso al compagno.
Simon, diversi metri sopra di lui, tenta di tirarlo su, di chiamarlo, di avere un cenno da lui. Niente. Non riesce nemmeno a vederlo. Dopo un’ora e mezza di strenui tentativi, si staglia di fronte a lui con prepotenza l’unico pensiero che cercava di scacciare: Joe è morto. E ora Simon ha una scelta obbligata: o taglia la corda, o morirà congelato anche lui. E alla fine, riluttante, taglia la corda.
Solo che Joe non è morto.
Joe precipita nel vuoto per quarantacinque metri, finisce in un crepaccio… ma sopravvive. La gamba spezzata, le ossa rotte o contuse, Joe riesce a uscire dal crepaccio. Sta male, ha fame, ha sete. La neve che ingerisce lo fa soffrire ancora di più e placa appena la sua disidratazione. Ma ha un obiettivo.
Di fronte a sé ha cinque miglia di rocce, neve e terreno spoglio: al di là c’è il campo base. Cinque miglia non sono poche. Nelle sue condizioni qualcuno direbbe che sono impossibili.
Joe si guarda attorno. Cento metri più avanti vede un albero rinsecchito. Tra sé e sé si dice: “Ehi Joe, scommetto che riesci ad arrivare a quell’albero in venti minuti”. Strisciando, zoppicando, col corpo che lancia urla di dolore a ogni movimento, Joe riesce ad arrivare all’albero nei venti minuti prefissi. Sorride, si congratula con se stesso, prende fiato. Poi guarda di nuovo davanti, e incrocia un’enorme roccia a centocinquanta metri più avanti. “Joe” si dice, “scommetto che puoi raggiungere quella roccia in soli quindici minuti”. Di nuovo lo sforzo immane per arrivare fino a lì, e di nuovo arriva. Questa volta ci impiega venticinque minuti, e allora stringe i denti: “Forza, avanti, sei andato bene. La prossima tappa la raggiungi in meno tempo, tranquillo”.
Va avanti così per tre giorni, con poche pause, il giusto per riposarsi. E in tre giorni Joe percorre, pezzo dopo pezzo, le cinque miglia che lo separavano dal campo base, arrivando stanco e confuso, ma vivo.
Lì, l’inaspettato. Simon Yates, il suo compagno, che nel frattempo era riuscito a scendere dalla parete e a tornare al campo base, doveva partire il giorno prima dell’arrivo di Joe, certo della morte di questi. Ma per qualche inspiegabile ragione, aveva deciso di aspettare un giorno in più. E Joe era arrivato in quel giorno.
Questa storia, qui raccontata con le mie parole, è una storia vera. È la storia di come Joe Simpson è sopravvissuto a quella che viene considerata come una delle disavventure più incredibili del mondo dell’alpinismo, e direi del mondo intero. Joe Simpon la racconta nel suo libro La morte sospesa.
È una storia che mi capita spesso di raccontare ai miei pazienti, perché ha dentro molti elementi di riflessione e ispirazione.
Joe dimostra con i fatti una verità descritta da uomini di tutti i tempi: la realtà cambia a seconda di come ti poni rispetto ad essa. Lo ha fatto ad esempio il filosofo stoico Epitteto, quando per primo disse che “Non sono le cose in sé a farci paura, ma le opinioni che abbiamo di esse”. Oppure lo storico britannico Thomas Fuller, che a chi vedeva la difficoltà di un’impresa ricordava che “Tutto è difficile prima di diventare semplice”. Fino allo scrittore Norman Vincent Pale, con il suo celebre incitamento: “Affronta gli ostacoli e fa qualcosa per superarli. Scoprirai che non hanno neanche la metà della forza che pensavi avessero”.
Tutti, Joe Simpson compreso, hanno mostrato che il modo in cui ci poniamo di fronte alle difficoltà determinerà in buona parte la riuscita o il fallimento dell’impresa. Che non vuol dire illudersi che basta un “atteggiamento positivo” per superare qualunque difficoltà. Lo stesso Joe non si è semplicemente seduto fuori dal crepaccio dicendosi sorridente: “Ma sì, vedrai che qualcuno prima o poi arriva e mi trova!”. Ha faticato, ha sudato, ha pianto e sofferto, ma non si è fermato, non si è dato per vinto, non si è arreso di fronte agli ostacoli. Questa è la componente essenziale da mettere in moto, questo è il vero potere di un “atteggiamento positivo”.
D’altronde, parafrasando la scrittrice Sally Kempton, se il nemico è nella tua mente, è difficile affrontarlo. Lei si riferiva alla schizofrenia, un nemico davvero difficile da battere. Noi parliamo dei limiti delle nostre credenze e autoinganni limitanti, molto più semplici da cambiare.
Quando racconto ai miei pazienti* questa storia dico loro una cosa ben precisa: adesso hai cinque miglia di difficoltà da superare, è vero, e non posso garantirti che sarà un percorso senza alcun ostacolo. Ma tu pensa solo a fare un primo piccolo passo. Appena l’avrai fatto, pensa al piccolo passo successivo, e una volta raggiunto, a quello dopo, e poi a quello dopo ancora. Lo psicoterapeuta John Weakland parlava proprio di terapia dei piccoli passi, mostrando come ciascuno di esso porta al successivo, fino a quando il viaggio, inaspettatamente, si completa (e va detta una cosa rilevante: Weakland è uno dei fondatori della terapia breve del Mental Research Institute di Palo Alto, quindi i suoi “piccoli passi” portavano a “veloci risultati”).
Scherzosamente, ma rendendo completamente l’idea, l’ipnoterapeuta Jeffrey Zeig dice: “Sai come si mangia un dinosauro? Un pezzetto alla volta”.
Allora, di fronte alla difficoltà, all’imprevisto, alle cinque miglia, il primo passo che devi fare è questo: adotta un atteggiamento mentale diretto alla soluzione, non fermo al problema. Pensa al primo piccolo passo da fare, e poi a quello dopo, e poi a quello dopo ancora, non alle decine o anche centinaia di passi nel loro insieme. Guarda all’albero più vicino da raggiungere, non al traguardo da superare. Pensa al primo piccolo pezzo da cambiare, non all’intero dinosauro da affrontare.
L’atteggiamento mentale è la prima condizione in cui porsi per superare qualunque ostacolo, esattamente, come fanno gli atleti di fronte a una prova.
Questo è il primo passo. E la prossima settimana ti spiegherò una tecnica per definire, iniziare e completare tutti i passi successivi.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per saperne di più:
Simpson, J. (1998). La morte sospesa. Milano: Corbaccio.
*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.