
“Quando la crisi economica iniziava a manifestare i suoi effetti più devastanti, la Regina Elisabetta d’Inghilterra in una sua visita alla London Business School chiese come mai nessuno l’avesse prevista e gestita, considerato il fatto che a posteriori le cause sono apparse evidenti a tutti.
Una prima risposta arrivò solo otto mesi dopo dalla British Academy, a firma di una trentina di professori delle più prestigiose università britanniche, banchieri e altri rappresentanti di istituzioni finanziarie. Questi riferirono [che] «…spesso i banchieri, economisti e finanzieri perdevano di vista il quadro complessivo»”.
(Nardone, Psicotrappole, pp. 28-29)
Chi non vorrebbe sapere tutto?

Il Dottor Faust ci riuscì, ma gli costò un po’ cara (dovette giusto vendere l’anima al Diavolo). Noi, oggi, abbiamo metodi meno mistici (ma forse altrettanto diabolici) per tentare l’impresa: dalla radio alla TV fino ovviamente alla rete. Questa cosa inizialmente non piacque tanto alle aziende – né ai dottori stessi – perché si trovarono clienti sempre più informati, che oggi leggono le etichette e sanno pure tradurle: OGM? No grazie. Biologico? Ben venga.
Ma se l’ampliamento del sapere comune è una conquista, l’illusione della conoscenza definitiva è una condanna.
Paul Watzlawick, ad esempio, criticò a suo tempo l’uso spregiudicato del bugiardino (il noto “foglietto illustrativo” presente nelle confezioni di medicinali), figlio del diritto all’informazione. Se infatti è ormai certo che “il cliente deve sapere”, occorrerebbe spiegare anche che “il cliente deve capire“. Pensiamo di nuovo agli ingredienti dei prodotti alimentari. Ai primi posti troviamo spesso nomi noti e rassicuranti: acqua, sale, olio, latte… Ma scorrendo la chiarezza si fa via via più nebulosa: addensante, emulsionante, E322, E400, E499. EH?
Così, chi si trovasse a leggere gli effetti collaterali di un comune ansiolitico si troverebbe di fronte a questa lista:
diminuzione dell’appetito, cambiamenti di peso, stato confusionale, depressione, disorientamento, diminuzione della libido, insonnia, sedazione, sonnolenza [ma non avevamo appena letto ‘insonnia’?!], atassia, compromissione dell’equilibrio, problemi di coordinazione, compromissione della memoria, diartria, disturbo dell’attenzione, ipersonnia [di nuovo? Decidetevi!]
E scorrendo (la lista è mooolto lunga) troveremmo che uno degli effetti collaterali che possono produrre i farmaci per combattere l’ansia è… l’ansia!
Paradosso?
No, informazioni parziali.
O meglio, impossibilità di poter inserire all’interno della confezione un manuale di medicina che illustri come interpretare quanto scritto.
E noi?
Come si ripercuote su di noi tutto questo?

L’illusione della conoscenza definitiva è un morbo che si espande nella vita quotidiana.
«[…] spesso riteniamo che l’unica via per risolvere i problemi dell’esistenza sia dedicarsi esclusivamente alla ricerca di spiegazioni scientifiche o argomentazioni oggettive e ragionevoli di ogni evento» continua Nardone.
«Ma chi ha subito, ad esempio, un tradimento, per quante spiegazioni possa darsi non avrà pace. Così chi ha perso all’improvviso in un incidente una persona cara non trarrà alcun beneficio dalle spiegazioni razionali dell’evento, proprio come chi subisce una grave malattia non potrà appellarsi a nessuna spiegazione […] In generale, il tentativo di spiegare in modo oggettivo l’inspiegabile o l’inaccettabile diviene fonte di sofferenza».
Di più: può diventare fonte di psicopatologia.
Così l’Come Combattere L’ipocondria, che è convinto di avere malattie gravi, si darà da fare strenuamente per trovarle, sottoponendosi ad esami medici ovviamente inconcludenti, che finiranno per rafforzare la certezza dell’incertezza, cioè di avere un male talmente oscuro da non essere individuabile.
Oppure molti problemi di Le 5 Tipologie Di Disturbo Ossessivo Compulsivo Più Frequenti possono condurci a controllare e ricontrollare e ricontrollare ancora in vista di un perfezionismo che addirittura ci danneggia: ci affatica cognitivamente (e così la performance risulta scadente), a volte consuma le risorse (hai presente la matita che temperi, temperi, temperi… finché è troppo corta e devi buttarla?) e infine, tornando alla risposta ricevuta dalla Regina Elisabetta, fa perdere il quadro complessivo delle cose.
Ma perché il “perché”?
Nietzsche ci avrebbe illuminato ricordandoci che spesso “il perché delle cose ci aiuta a sopportare meglio il come“.
Certe cose accadono, e trovare una spiegazione è un tentativo molto umano di risolvere il problema; o, più che altro, è un tentativo di lenire le conseguenze emotive che il problema ha causato. Ma a volte questa spiegazione, questo “perché”, non fa altro che frustrarci ancora di più, incapace com’è di calzare correttamente alla realtà.

Karl Popper dava una bella immagine della realtà.
Diceva che c’è un primo ordine di realtà (lui la chiamava Mondo 1) che è quella degli oggetti e degli eventi fisici, e un secondo ordine di realtà (Mondo 2) che è dato dalle nostre esperienze e pensieri, e cioè anche dai significati che diamo al Mondo 1.
È un po’ come se nel Mondo 1 esistesse una sedia, oggettiva, ma noi potessimo “comprenderla” solo a partire dal Mondo 2, da una visione soggettiva. Quindi non vediamo la sedia del Mondo 1, ma vediamo un lenzuolo che la ricopre e che ce ne fa intuire la forma: seppure non possiamo mai arrivare a vedere la sedia oggettiva, l’immagine che ne traspare dalle forme del lenzuolo è comunque piuttosto chiara e precisa, seppure mai completa ed esatta.
Ora, immagina che al posto della sedia ci sia un qualunque evento, una qualunque condizione o situazione. La spiegazione che cercheremmo, attraverso la ragione, la tecnologia o qualunque altro mezzo, sarebbe limitata: ci limiteremmo a fare un’inferenza, un’interpretazione, una supposizione di ciò che è sotto il lenzuolo, senza poterla però mai verificare al 100%; senza, cioè, poter mai togliere il lenzuolo.
Ed è qui che sorge l’errore, il problema, o addirittura, come visto, la psicopatologia.
«Cioè?»
La maggior parte delle volte ci basta quella inferenza, interpretazione o supposizione fatta. Infatti, se dal lenzuolo ci sembra di capire che ciò che abbiamo di fronte è una sedia, la maggior parte delle volte questa supposizione è abbastanza adatta da permetterci di agire correttamente: proviamo a sederci, e ci riusciamo. Questo fa sì che viviamo tranquillamente gran parte delle nostre giornate pur senza disporre di conoscenze definitive, oggettive.
L’errore, però, sopraggiunge quando, per qualche ragione, cerchiamo a tutti i costi di sapere cosa c’è davvero sotto il lenzuolo. È un paradosso che fa soffrire.

«Perché?»
Perché cerchiamo di vedere sotto il lenzuolo, ma quel lenzuolo, come detto, non si potrà mai togliere. E allora, tutte le volte che diamo una spiegazione, alimentiamo contemporaneamente il senso di insoddisfazione: più spieghiamo, più soffriamo.
Più cerchiamo di capire “perché”, più sentiamo che quella risposta non calza come vorremmo. Seppure ciò che vediamo trasparire da sotto il lenzuolo ci sembra “x”, esso non è “esattamente x”: qualcosa ci sfugge, qualcosa rimane incomprensibile, e allora ci affanniamo ancora di più a cercare di capire cos’è, producendo nuove risposte che porteranno a nuove insoddisfazioni.
Questo avviene tutte le volte che cerchiamo di capire se, in una data situazione, abbiamo fatto la cosa giusta o quella sbagliata; tutte le volte che proviamo a capire come sarebbe potuta andare diversamente una certa situazione; tutte le volte che tentiamo di spiegare razionalmente l’irrazionale; tutte le volte che vogliamo prendere precauzioni totalitarie o fare previsioni imprevedibili. Alcuni autori lo chiamano “dubbio patologico“.

«Qual è la soluzione?»
Ce ne possono essere diverse, a seconda di ciò che stiamo facendo. Ma quel che è importante comprendere è che è proprio ciò che stiamo facendo a farci soffrire di più.
Certi “perché”, certe spiegazioni, semplicemente non possono essere dati, per quanto vorremmo che non fosse così. Occorre perciò lottare e frenare il tentativo di spiegare per tornare a vivere, pur con quella punta di insoddisfazione o di incertezza: d’altronde, è proprio ciò che facciamo tante volte, tanti giorni, in tante altre occasioni della nostra vita.
A un certo punto, dunque, arriva il momento di dirsi “Ho fatto questo, è andata così” e smettere di domandarsi se si può fare di più, di meno, di meglio, di peggio, o in modo diverso: sarebbe come continuare a guardare il lenzuolo sperando che prima o poi, una folata di vento, lo porti via.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per approfondire:
EMSF.rai.it (1989). Intervista a Karl Popper.
Nardone, G. (2013). Psicotrappole. Milano: Ponte alle Grazie.
Nardone, G., De Santis, G. (2011). Cogito ergo soffro. Quando pensare troppo fa male. Milano: Ponte alle Grazie.
Popper, K. (1972). Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica. Bologna: Il Mulino, 2009.
Watzlawick, P. (1986). Di bene in peggio. Milano: Feltrinelli, 1987.