Nel secolo scorso venne condotto un esperimento che oggi ci risulterebbe immediatamente disumano: dei topini venivano messi in un contenitore pieno d’acqua senza possibilità d’appiglio, osservando dopo quanto avrebbero smesso di nuotare, dopo quanto, cioè, si sarebbero arresi, presi dalla disperazione. Alcuni di questi esperimenti lasciavano anche il topino completamente al buio: la resa incondizionata pare che avvenisse in pochi minuti.
Altri topini, invece, a un certo punto venivano presi dalle mani dello sperimentatore, tratti in salvo per qualche istante, e poi rimessi nel contenitore: questi ultimi nuotavano e rimanevano a galla per numerose ore, anche più di un giorno. La speranza di potercela fare li faceva insistere e andare avanti.
La crudeltà dell’esperimento fu sottolineata a più riprese da numerosi autori, alcuni dei quali tuttavia cercarono quantomeno di trarre un’osservazione in qualche modo utile da tutto ciò: l’ultima a morire non è probabilmente la proverbiale speranza, ma è la speranza che consente di essere gli ultimi a morire, o di non esserlo affatto.
Un’altra storia viene raccontata da Paul Watzlawick nel suo libro La realtà inventata (Feltrinelli).
Un uomo, malato di una malattia non diagnosticabile, viene dato dai medici come destinato a perire, a meno che, gli fanno sapere, un illustre diagnosta, che passerà in quell’ospedale l’indomani, non riesca a dare un nome al suo malanno. Il giorno dopo l’importante medico fa il giro dei malati; arrivato di fronte al capezzale dell’uomo dà un’occhiata veloce alla sua cartella e dice uno sbrigativo «Moribundus», allontanandosi senza altri commenti.
L’indomani l’uomo inizia a migliorare e in poco tempo guarisce completamente dai suoi mali, riuscendo a rimettersi in poco tempo. Anni dopo rintraccia il famoso diagnosta e, al telefono, gli dice: «Grazie mille, dottore: i suoi colleghi mi avevano detto che sarei guarito solamente se lei avesse saputo dare un nome alla mia malattia. Quando le ho sentito pronunciare “Moribundus” ho capito che ce l’avrei fatta».
Possibile salvarsi per un errore di comprensione? Essere convinti di potercela fare, crearsi una speranza, riesce a portarci oltre i mali che ci impediscono di vivere e che ci limitano la vita?
La storia clinica in realtà è piena di casi simili e anche dei suoi contrari.
Ricordo un articolo – ma purtroppo non ricordo la rivista – in cui si citava il caso di un uomo guarito completamente da un male definito “incurabile” grazie all’utilizzo di farmaci sperimentali. Quando, un paio d’anni dopo, lesse per puro caso che quei farmaci, alla fine, erano stati decretati come totalmente inefficaci dalla comunità scientifica, in breve tempo si riammalò dello stesso male e perì in pochi mesi, senza mai più migliorare.
Ma storie di persone che si sono “lasciate morire” quasi tutti le abbiamo sentite. Ed alla luce di queste, riflettendoci, quelle di persone che si sono “lasciate vivere” dovrebbero stupirci meno.
Perché tutte queste storie?
Potremmo in realtà riassumere tutti questi racconti nella nota, abusata, ma eccezionalmente veritiera immagine del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: il bicchiere, semplicemente, è; ciò che ne determina la percezione positiva o negativa è, appunto, la percezione che noi scegliamo di avere di esso.
E potremmo spingerci anche più in là e constatare che il bicchiere potrebbe essere oggettivamente più pieno che vuoto, o più vuoto che pieno, ma che anche in questo caso è sempre la nostra percezione a determinare la bontà o meno di ogni condizione. Di fronte a un bicchiere riempito per 2/3 potremmo infatti dirci che, tuttavia, “è solo un bicchiere: come può bastare per dissetarmi?”; mentre di fronte a un bicchiere pieno solo per 1/3 qualcun altro potrebbe dire che “è un buon inizio: mi disseterà giusto il tempo di cercare dell’altra acqua”.
Ottimisti si nasce? Pare proprio di no.
Amy Cuddy, psicologa sociale il cui TEDTalk risulta il secondo più visto nel mondo, ha dimostrato in maniera eccellente come “fingere è una cosa seria“. Nelle sue ricerche, persone che fingevano un determinato stato (nel caso specifico, assumevano una postura fisica da “leader” pur non sentendosi leader affatto), dopo appena 120 secondi cominciavano a sentirsi veramente in quello stato. Fingere con il corpo – e gli atteggiamenti e i comportamenti, aggiungiamo – di essere qualcosa, di fare qualcosa, ti dà l’avvio per poter essere davvero in quel modo, per poter fare davvero quella cosa, per raggiungere e mantenere quello stato desiderato.
Tutto questo con buona pace di due credi dilaganti: quello che vorrebbe che noi agissimo solo dopo aver iniziato a “sentire” di essere in grado di farlo, e quello di chi vuole che l’azione debba seguire la comprensione, cioè prima capisco “perché” e poi mi metto in moto.
La realtà del “fare per sentire”, contraria al “sentire/capire per fare”, peraltro, viene oggi ratificata ulteriormente dalle neuroscienze e da ricerche come quelle di Amy Cuddy, ma è ben nota agli psicoterapeuti (a quelli di area strategica, di sicuro) da molti decenni, formalizzata ad esempio nella tecnica del Come Se o nella Miracle Question. Il nome di quest’ultima (“la domanda del miracolo“) non ha niente di esoterico o pomposo: fa semplicemente riferimento alla formulazione data dal suo creatore, lo psicoterapeuta Steve De Shazer:
“Ora vorrei porle una domanda un po’ diversa, per la quale dovrà usare l’immaginazione. Immagini di tornare a casa e di andare a dormire dopo la seduta di oggi. Mentre dorme avviene un miracolo e il problema che l’ha portata qui è risolto, così (schioccando le dita). Poiché accade mentre dorme, lei non sa che si è verificato il miracolo. Cosa pensa che sarebbe la prima piccola cosa che, domani mattina, le indicherebbe che durante la notte c’è stato un miracolo e che il problema che l’ha portata qui è risolto?”
(Kim Berg & Miller, Quando bere diventa un problema. L’alternativa alle lunghe e costose terapie tradizionali. Milano: Ponte alle Grazie, 2001, p. ).
Con questa domanda si orienta la persona a creare da sé la “speranza”. Ma, ancora una volta, non in un modo magico, dal sapore new age e poco concreto: il passo successivo, infatti, è esattamente quello di cominciare a fare proprio quella piccola cosa – la più piccola di tutte quelle che verranno in mente – che già farebbe spontaneamente a “miracolo” avvenuto.
Questa non è “psicologia positiva”, si presti attenzione: questo è il processo di cambiamento che parte da ciò che facciamo per andare a cambiare ciò che percepiamo.
Così come il paranoico che è convinto che tutti ce l’abbiano con lui entra in una sala d’aspetto guardando in cagnesco chiunque, ricevendo di rimando occhiatacce indisponenti, e confermandosi così che sì, tutti ce l’hanno con lui, allo stesso modo il depresso che ormai rinuncia a vivere la vita, smettendo di fare e piangendo il suo stato, alimenta, con lacrime e inattività, esattamente ciò di cui si lamenta.
“Ma io non ce la faccio” dice giustamente: ma abbiamo già visto che è proprio “il fare” che ti fa riuscire a fare – e abbiamo anche visto che aspettare di “sentire” di potercela fare o di “capire” perché non ce la si fa, non è altro che un ulteriore modo di ingrassare il meccanismo perverso del proprio malessere.
Dunque, da qui, e in conclusione, si comprende finalmente il titolo un po’ d’azione (perché è proprio di passare “all’azione” che si tratta), apparentemente superficiale, ma volutamente provocatorio, del “Mai arrendersi”. Non perché c’è sempre speranza, ma perché la speranza, come avrete capito, è una costruzione, e le mani che la plasmano possono essere solo le nostre.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per approfondimenti:
Watzlawick, P. (a cura di). (1988). La realtà inventata. Contributi al costruttivismo radicale. Milano: Feltrinelli.