Non ci siamo capiti

Dott. Flavio Cannistrà, psicologo a Monterotondo e a RomaSul finire del XVII secolo John Locke, celebre filosofo empirista, si trovò in mezzo a un’accesa discussione. All’interno di un’aula, due fazioni di studiosi si scontravano su un tema decisamente ostico: il liquor scorre oppure no all’interno dei nervi? Una fazione sosteneva di sì, l’altra si opponeva veementemente.
John Locke osservò e ascoltò con attenzione, dopodiché alzò una mano e invitò a una riflessione: «Sapete voi tutti che cosa si intende per liquor?».
Indignati, quasi offesi, gli studiosi affermarono che, certo, sapevano di cosa parlavano. Locke li invitò a spiegarsi. La fazione che sosteneva che il liquor scorresse all’interno dei nervi disse che esso altro non era che un fluido spirituale. A quel punto la seconda fazione, che sosteneva che esso non potesse scorrere all’interno dei nervi, rispose sorpresa che per liquor loro intendevano un vero e proprio liquido materiale e che invece un fluido spirituale sicuramente avrebbe potuto scorrere nei nervi. Chiariti questi punti le due fazioni ridefinirono i propri concetti e trovarono velocemente un accordo sulla definizione e sulle proprietà del liquor.

Strano racconto, eh?
Ma come” ci si potrebbe chiedere, “ti pare che quelli non sapessero a priori di cosa stessero parlando?”. In realtà sapevano bene di cosa stavano parlando, ma ciascuno pensava che l’altro condividesse lo stesso significato, la stessa definizione dell’argomento trattato.

In psicologia si arriva a parlare di pensiero magico tutte le volte in cui si è convinti di conoscere il pensiero dell’altro, le sue idee, le sue opinioni, le sue credenze. Ci capita tutti i giorni. Magari vediamo un amico con un’espressione particolare e ne deduciamo che è infelice, triste, sconsolato… quando magari sta semplicemente riflettendo; oppure sì, è triste, ma per una cosa di poco conto, mentre noi siamo convinti ci sia sotto qualcosa di grave. In situazioni più complesse, come nella storia di John Locke, l’errore è quello di parlare della stessa cosa… senza aver prima chiarito se effettivamente intendiamo la stessa cosa!

Facciamo un esempio veloce. Se io chiedessi a ognuno di voi lettori di descrivermi una tazza, ciascuno mi darebbe una descrizione diversa: stretta o larga, bassa o lunga, con o senza manico, colorata o con disegni, moderna o vintage… Per fortuna, però, parliamo di una tazza, qualcosa di concreto e di estremamente comune nella vita di tutti.

Ma se parlassimo di felicità? Di serenità, tranquillità, o di speranza? Di dolore, di dispiacere, di fastidio? O di sensazioni, di emozioni, di relazioni? Insomma, di concetti decisamente astratti, estremamente soggettivi, spesso enormemente diversi per ciascuno di noi? Il fraintendimento sarebbe dietro l’angolo.

Buona parte dei problemi si creano perché crediamo a priori di avere chiaro il concetto di cui stiamo parlando. E questo sia quando interagiamo con gli altri, sia quando dobbiamo affrontare questioni personali, individuali. Se crediamo di avere un “brutto male”, ad esempio, rischieremo di gettare la spugna molto presto, convinti dell’impossibilità di poter fare qualcosa.

Molti pazienti* vengono da me con vere e proprie autocondanne: “Credo di essere psicotico”, “Ho letto i sintomi su internet: ho un disturbo di personalità”, “Mi sa che sono affetto da una depressione bipolare”. La prima cosa che faccio è mettere le cose al loro posto, chiarendo che una diagnosi – cioè una definizione corretta del loro problema – la potremo dare solo più avanti e che, per ora, non è utile.

Prima regola del problem solving strategico, cioè di quella disciplina che studia il processo che porta alla risoluzione dei problemi: definiamo congiuntamente il problema. E questo lo possiamo applicare nella vita di tutti i giorni. Eviterà di arrivare al contrasto, cioè a uno scontro dato da un’incomprensione dell’oggetto del discorso.

Nella vita di tutti i giorni, in particolare, possiamo chiarire prima di che cosa stiamo parlando. Prima di iniziare un lavoro, un discorso impegnativo, un percorso per un obiettivo comune, chiariamo (a noi e agli altri) di cosa stiamo parlando, arrivando insieme a una definizione comune. Questo ci aiuterà a evitare contrasti sull’obiettivo da raggiungere, a non perdere tempo lungo rotte sbagliate e a remare tutti assieme verso la stessa meta.

Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia

Riferimenti bibliografici
Nardone, G.
(2009). Problem solving strategico da tasca. Milano: Ponte alle Grazie.

Watzlawick, P. (a cura di). (1988) La realtà inventata. Milano: Feltrinelli.

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P.S.: domani vi aspetto a Monterotondo per il seminario gratuito “L’arte della comunicazione”, in via Bellini 14 dalle 18:30 alle 20:00.

*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.