Esistono i casi “impossibili” secondo le Terapie Brevi? Io credo che pensare che un cambiamento sia già in atto è fondamentale. Le persone che definiscono il loro caso come impossibile dicono che con loro “non funziona niente” e spesso dicono questo perché hanno completamente perso il focus rispetto alle loro risorse. Per questo, è proprio in questi casi che lo psicologo dovrà indagare cosa sta già funzionando nella vita di quella persona, che cosa sta già facendo – magari inconsapevolmente – e che cosa può essere utile alla risoluzione del suo problema.
Quindi lo psicologo dovrà osservare quali sono delle leve/risorse, che possono essere utilizzate. D’altronde il vero esperto del problema è il paziente, quindi bisogna guardare lui per capire qual è il modo migliore per risolvere il problema. Senza saperlo, le persone possono dire tutto ciò di cui hanno bisogno per riuscire a stare bene.
Tuttavia, oltre a posare la propria attenzione su quello che già funziona, è bene anche prestare attenzione su cosa invece non funziona. Anche perché, se una cosa non funziona, bisogna fare qualcosa di differente. Questo è uno dei principi base delle terapie brevi e in effetti ha il suo senso. Tutti, quando hanno un problema, reagiscono in un certo modo, ma questo modo in cui spesso reagiscono, a volte, non fa altro che alimentare il problema o crearne uno nuovo. Quindi notare cosa non funziona aiuta a capire che il problema può essere associato ai comportamenti che si mettono in atto e pertanto l’intervento sarà quello di andare a bloccare quei comportamenti.
Attenzione alle tentate soluzioni disfunzionali
Una prima tentata soluzione tipica che si trova in diverse problematiche è “l’evitamento”. È tipica soprattutto per chi ha delle problematiche cosiddette fobiche, perché il fobico tende a evitare l’oggetto della fobia, e più in generale è alla base di molte problematiche con l’ansia o la paura sottostante. Ovviamente non è l’unica emozione, anche il dolore può apportare all’evitamento, per evitare, per l’appunto, di confrontarsi con la sofferenza o di stare a contatto con le cose che provocano quel dolore. Quando una persona mette in atto massicciamente delle condotte di evitamento, magari evita determinati luoghi come i ponti o le autostrade, evita determinate situazioni, come per esempio i party o evita delle performance come gli esami o degli eventi. E naturalmente può evitare anche oggetti come insetti, animali, siringhe clown e così via. Ma il problema insito in questa tentata soluzione è che più evito più mi confermo che non sono capace, mino la mia autostima, la mia consapevolezza di potercela fare, la mia self confidence, e do ragione invece all’oggetto fobico, lo vedo come minaccioso, perché se non lo fosse non avrei bisogno di evitarlo.
Una seconda tentata soluzione spesso correlata alla precedente è il “controllo”. Questa è davvero ampia, perché il controllo lo puoi esercitare in una infinità di modi. Ad esempio chi è ipocondriaco controlla costantemente il suo corpo si monitora, si sente, si ascolta, vede cosa va e cosa non va, si fa un esame, un check up completo costantemente tutto il giorno e così via. O pensa all’amante geloso un’altra forma di controllo totalmente diversa che controlla costantemente il suo partner, magari gli chiede “Dove vai? Che fai? Con chi sei?” o gli prende il cellulare, per vedere gli ultimi messaggi, anche questa è una forma di controllo. O ancora pensa all’ossessivo. Il controllante per natura, che può esercitare questa forma di controllo in diversi modi, magari va su internet a controllare delle informazioni a cercare di capire meglio qualcosa in maniera per l’appunto ossessiva oppure magari può andare a controllare fisicamente qualcosa, magari se quell’ oggetto è messo esattamente nel punto e nel posto e nel modo in cui l’avevo lasciato. Ovviamente il problema del controllo è che più controllo più avrò bisogno di controllare, ogni volta che controllo sto avallando il controllo successivo.
Terza tentata soluzione disfunzionale è quella di chi chiede costantemente aiuto. Aiuto poi si può declinare in tanti modi, per esempio c’è la persona che chiede di essere costantemente accompagnata a fare le cose per non farle da sola, l’aiuto si può anche esprimere in una rassicurazione, quindi l’insicurezza cronica ci può portare a chiedere costantemente rassicurazioni sul fatto che stiamo facendo la cosa giusta, oppure, se dobbiamo prendere l’esempio di prima dell’ipocondriaco, chiederà costantemente rassicurazioni al medico ai familiari sul fatto che sta bene o allo stesso terapeuta, che può diventare un rassicuratore disfunzionale. E il problema qui è che ogni rassicurazione ha in sé un messaggio sottile e subdolo: se io ti rassicuro, se io ti aiuto, ti sto comunicando “tu da solo non sei in grado”.
Altre soluzioni da “caso impossibile”: parlare, lamentarsi, trattenere ed arrendersi
Stranamente una quarta soluzione disfunzionale può essere il “parlare”. Dico stranamente perché questo è proprio uno di quegli esempi più espliciti di come una cosa che può essere molto funzionale in certe situazioni, come in psicoterapia, in altre situazioni può essere totalmente disfunzionale. Per esempio nelle problematiche di natura ansiosa, più parli, più getti benzina sul fuoco, più parli, più stai fertilizzando la pianta dell’ansia. Oppure anche chi si lamenta, se lo fa di continuo, rischia di perpetuare la lamentazione stessa, il problema diventa “la lamentela” e andando avanti a parlare si arriva all’inazione, cioè mi lamento di continuo e questo diventa l’alibi per non cambiare le cose.
Un’altra soluzione ugualmente disfunzionale, a seconda dei casi, può essere il “trattenersi”. Una cosa che fanno spesso le persone che non riescono a gestire la rabbia è quella di trattenere, trattenere, trattenere e poi esplodere in modo atomico. E non di rado anche le manifestazioni psicosomatiche spesso vengono fuori in persone che non verbalizzano, non esprimono, quindi trattengono dentro quello che vorrebbero dire o determinati contenuti di pensiero.
Ultima tentata soluzione disfunzionale è “l’arrendersi”. L’ arrendersi, la rinuncia, lo smettere di fare. Il depresso è la persona che si sdraia sul letto e rinuncia… Può rinunciare a tutto, oppure può rinunciare a parte della sua vita, a seconda dei casi. Puoi rinunciare agli amici, puoi rinunciare al sesso, puoi rinunciare al piacere, la rinuncia, di base, è una brutta bestia. In questi casi il compito dello psicologo è quello di passare dalla rinuncia totale all’ iniziare a costruire qualcosa. Ma quindi come si risolve un “caso impossibile”? In primis non considerandolo impossibile. Per tale ragione, secondo me, una cosa che caratterizza un buon terapeuta breve è osservare i feedback e adattarsi a seconda di quello che risponde la persona.
Dr Flavio Cannistrà
Co-Fondatore dell’Italian Center for Single Session Therapy
co-Direttore dell’Istituto ICNOS
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
Bibliografia
Cannistrà F., Piccirilli F. (2018). Terapia a seduta singola. Principi e pratiche. Roma: Giunti.
Cannistrà F., Piccirilli F. (2021). Terapia Breve Centrata sulla Soluzione. Principi e pratiche. Roma: EPC editore.
Hoyt, M.F. & Talmon, M. (eds.) (2014). Capturing the Moment. Single Session Therapy and Walk-In Services. Bancyfelin, UK: Crown House.
Talmon, M., (1990). Single Session Therapy. San Francisco, Jossey Bass Publishers, (Tr. It. Psicoterapia a Seduta Singola. Trento: Centro Studi Erickson, 1996).