La società, il tessuto che veste le nostre giornate, si colora dei nostri pensieri e sentimenti generati dall’era attuale.
Sono d’accordo con chi dice che oggi siamo nella “società del controllo”. Il colore di quel tessuto è appunto quello freddo e lucente del controllo.
Che vuol dire? Che siamo affamati di occhi e orecchi e mani che ci diano la percezione di avere davanti a noi tutto lo scibile, a pochi centimetri dalla nostra pelle.
Che altro vuol dire? Che a volte siamo angosciati da quel senso di sfuggevolezza di quelle cose che ci sembrano siano proprio lì, appunto, a pochi centimetri da noi, vicinissime eppure fuori dalla nostra portata, fuori controllo.
«Di cosa stai parlando?»
Dell’uomo che si adatta a tutto, ma di come questo adattamento può diventare una trappola.
Vi sarà capitato di dirlo, o almeno di sentirlo dire: “Adesso con i cellulari siamo sempre raggiungibili, ovunque, ma se non riescono a raggiungermi certe persone vanno in ansia, pensano al peggio… Ma, scusate, prima dei cellulari come facevamo?“
A pensarci sembra incredibile, enorme, quasi grottesco: abbiamo dimenticato un modo di vivere. Abbiamo dimenticato come si viveva senza cellulari. E senza computer, senza telecamere, senza centinaia di canali TV, senza occhi puntati nell’intimità delle persone…
«È il progresso, l’evoluzione…»
Un collega, durante una piacevole chiacchierata all’aria aperta, mi fece notare che nel termine “evolvere” c’era una connotazione positiva: non si può evolvere in peggio; in quel caso è un’involuzione. Ecco cosa dice il dizionario etimologico Pianigiani:
E non a caso ho lasciato anche la seconda parte della definizione, quella relativa alla milizia, come vedremo più avanti.
«Insomma stai dicendo che sei un antiprogressista? Che la tecnologia e i suoi sviluppi sono il male?»
Assolutamente no. Anzi, penso anche che, la maggior parte delle volte, se una certo elemento resiste alla prova del tempo all’interno di un dato sistema (culturale, sociale ecc.), è perché porta dei vantaggi. Certo, bisogna stare attenti, perché potremmo trovarci di fronte ai cosiddetti “vantaggi secondari”, figli di “svantaggi primari” causati dal nuovo cambiamento (ne ho parlato nell’articolo Perché Continui A Fare Cose Che Ti Fanno Male? Il Vantaggio Secondario). Ma, volendo essere concreti e senza scendere in dovuti ma ora non necessari approfondimenti e implicazioni, ciò che non funziona in natura presto scompare – e se non scompare, fa male (ecco perché “i sintomi”).
Il cellulare non è scomparso. E nemmeno tutti i suoi compagni, figli e al contempo genitori della “società del controllo”.
«Ok, fammi capire bene. Hai detto che sei d’accordo con chi sostiene che viviamo nella “società del controllo”, dove appunto il bisogno di avere sempre più controllo sulle cose è crescente…»
Esatto. E il bello è che questo è in apparente conflitto con la cosiddetta “società liquida”, dove i punti di riferimento sono sempre più labili.
«Ok, chiaro. E poi hai detto che lo stato attuale, questa società appunto, è frutto dei normali processi di evoluzione, anche se però viviamo un paradosso: è un’evoluzione perché porta benefici, ma al tempo stesso porta degli svantaggi.»
Sì.
È un paradosso con cui conviviamo da sempre. Anzi, credo che sia “il paradosso dell’evoluzione”: ogni nuovo adattamento, ogni nuova soluzione, deve portare nuovi problemi, altrimenti come potremmo crescere?
Per farla semplice cito un esempio provocatorio che uso durante i workshop nelle aziende: i computer hanno rinvigorito il business del benessere.
Quando “arrivarono tra noi”, i computer erano “la soluzione”: erano il nuovo messianico strumento che avrebbe semplificato e migliorato la vita di tutti, in tanti ambiti, quello lavorativo su tutti, per la capacità di compiere operazioni e calcoli complessi in tempi rapidissimi. L’ideale era questo: il lavoro che prima facevi in dieci ore, ora potevi farlo in tre, dedicando lo spazio rimasto a te stesso.
Questa era la soluzione annunciata. E forse è stato così, in alcuni casi e per un brevissimo lasso di tempo.
Perché poi le rimanenti sette ore sono state riempite: non dal tempo libero, ma da altro lavoro. Se prima un lavoro ti richiedeva un mese, e ora ti richiede una settimana, vuol dire che in quel mese puoi prendere in carico altri quattro lavori. E se non lo fai tu, lo fanno i concorrenti. E se ti strizzi un po’ di più, magari ne prendi in carico anche cinque o sei. E allora lavori su più fronti, sempre più rapidamente, con sempre meno spazio per te… Ed ecco che nascono i problemi, l’ansia da prestazione, lo Fuggire Dallo Stress (Al Lavoro), il Storie: La Paura Di Sbagliare Al Lavoro, la stessa Il Gioco E L’azzardo…
Ma come l’uomo, anche la società ha un sistema immunitario, che presto produce una risposta difensiva a queste cellule malate generate dal nuovo adattamento, dalla nuova realtà. Si moltiplica l’attenzione al corpo e alla mente, si crea il terreno adatto per l’intensa fioritura di idee, proposte, gruppi, centri, movimenti per il benessere, il fitness, la salute psico-corporea…
Questo è solo un esempio di superficie, non mi importa di sbullonarlo per testarne ogni suo elemento, mi importa di passare un concetto: quella che doveva essere – e che è stata – una soluzione a vecchi problemi ha prodotto nuovi problemi, a cui si è risposto con nuove soluzioni che daranno luce a nuovi problemi (o fertilizzeranno problemi già presenti, ma ancora incapaci di innalzarsi).
Quindi… no, non sono antiprogressista, anzi.
È proprio qui che si inserisce il mio discorso: la necessità di prevedere l’imprevedibile.
In una società dominata dal controllo, anzi, adattata al controllo, abituata ad avere tutto sotto controllo, si rischia di perdere di vista un punto fondamentale: il controllo totale è impossibile.
Purtroppo questa cosa non ci sta bene, e alcuni addirittura finiscono per perdersi nei meandri di dubbi cronicizzati a cui nessuna risposta sembra dar sollievo (si parla di dubbio patologico) o in vere e proprie ossessioni senza fine.
Sarebbe il caso di dirlo: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Nel senso che quando c’era meno (possibilità di) controllo, c’erano meno preoccupazioni di dover controllare. Come dire, finché l’uomo non poteva volare non si preoccupava più di tanto di poter cadere da migliaia di metri di altezza.
«Ma se il controllo fa parte della società in cui viviamo come facciamo a convivere con i suoi paradossi? Hai sottolineato che certi problemi, o anche solo difficoltà, possono essere dovuti al tipo di vita che viviamo adesso, nelle società odierne. Come ce ne liberiamo?»
Possiamo assumere piccole dosi di quello che ora ci pare un veleno.
Ogni tanto i miei clienti* mi chiedono: “Ma a che serve il dolore? Perché devo soffrire?”. Io gli faccio notare che il dolore serve a creare i “muscoli emotivi”. Conosciamo tutti l’immagine per cui, quando ti alleni, produci delle lacerazioni muscolari che, nella fase di riposo, vengono riparate producendo così l’accrescimento dei muscoli stessi (medici e professionisti del campo non me ne vogliano di questa spiegazione talmente poco scientifica e raffinata). E il dolore fisico è il sottofondo di questo processo, al punto che in materia gli anglofoni dicono “No pain, no gain“, senza dolore, non c’è guadagno (nel senso di crescita muscolare).
Il dolore emotivo suona in modo simile: ci permette di diventare più forti. Saremo sempre sottoposti a certe dosi di dolore nella nostra vita, è inevitabile. L’importante è aver sviluppato nel tempo quelle risorse che ci permettano di affrontare le dosi di dolore più imponenti. Come dire: essersi bagnati sotto un temporale per saper resistere alla tempesta.
La stessa logica va applicata all’eccesso di controllo.
Non è possibile controllare tutto. L’idea che sia tutto sotto controllo è un’illusione, e per quanto calcoli, prove e sperimentazioni ci sembrino dire il contrario, la verità rimarrà sempre una: la realtà non ama sentirsi controllata da noi.
Per questo a volte dà degli strattoni, tira le briglie, s’imbizzarrisce, prende strade tortuose, scure, cedevoli, sconosciute, lasciandoci senza mappa in territori sconosciuti – magari solo in quartieri diversi da quelli che siamo soliti frequentare, col rischio però di farci girare in tondo alla ricerca di una via d’uscita.
Dobbiamo evitare di arrivare a trovarci in queste situazioni, di arrivare al sentimento di perdizione, all’ansia dell’incertezza, all’angoscia da mancato controllo. E il modo migliore per farlo, è assumere piccole dosi costanti di quello che ci sembra un veleno, ma che in realtà è l’antidoto ai nostri problemi. Concedersi, cioè, un po’ di sana mancanza di controllo. Agire senza rimuginare, provare senza testare, vedere senza classificare… Insomma, concedersi le infinite possibilità di crescita che ti danno l’errore, lo sbaglio, il passo a occhi chiusi.
«Un salto nel buio?»
Non proprio: abbiamo detto piccole dosi, non grandi fette. Se entri la prima volta in palestra con l’intenzione di sollevare una sbarra con 100kg ti spezzi la schiena. Ma se cominci con piccoli pesi quotidiani, la prossima volta che ti capiterà un’automobile ferma sulla strada, spingerla per farla ripartire non ti sembrerà così faticoso…
Questa è la vera previsione dell’imprevisto – che, per definizione, è imprevedibile. In psicoterapia strategica, Paul Watzlawick parla di “imprevisto previsto” quando si suggerisce al cliente di fare un certo tipo di compito che lo metterà in condizione di fare un’esperienza dal valore terapeutico che questo non si aspettava (l’imprevisto), ma che il terapeuta sapeva sarebbe accaduta (il previsto).
Una variante di questa strategia, direttamente applicabile da tutti noi come forma di prevenzione, consiste nel mettersi nello stato mentale e comportamentale di attesa del imprevisto. La milizia citata nell’etimo di “evolvere” fa proprio questo: cambia la sua posizione, il suo assetto, evolvendo a seconda di ciò che richiede la situazione, ma per farlo ha necessità di una pronta risposta e flessibilità all’imprevedibilità delle situazioni.
Come detto, evitare il calcolo di ogni probabilità, aprire le porte a una certa dose di incertezza – che, ripeto, è sempre e comunque presente nella realtà di tutti i giorni. Prevedere che l’imprevedibile esista e lasciare, in piccole dosi, che accada. Questa è la strategia per prevedere l’imprevedibile, ed essere pronti quanto busserà alla nostra porta.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per approfondimenti:
Nardone, G., De Santis, C. (2011). Cogito ergo soffro. Quando pensare troppo fa male. Milano: Ponte alle Grazie.
Nardone, G., Portelli, C. (2013). Ossessioni. Compulsioni. Manie. Capirle e sconfiggerle in tempi brevi. Milano: Ponte alle Grazie.
*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.