Nello scorso articolo abbiamo visto come la non-comunicazione sia impossibile: se ogni comportamento comunica qualcosa è chiara l’impraticabilità di un non-comportamento. P
ersino se decidessimo di andarcene staremmo paradossalmente comunicando al nostro interlocutore che non abbiamo intenzione di comunicare con lui.
Se non si può non-comunicare, allora, cosa succede quando è impossibile, difficile o svantaggioso interrompere o non iniziare una comunicazione?
Nell’articolo della scorsa settimana riportavamo l’esempio di due passeggerei d’aereo, con A che non aveva alcuna intenzione di comunicare con B, pur non potendo di certo saltare da un aereo in volo; ma possiamo far riferimento a esempi più ordinari di “comunicazione obbligata”, ad esempio quella che avviene tra i membri della famiglia, tra insegnante e studenti, tra datore di lavoro e dipendenti, o in tutti quei casi in cui andarsene non è semplice, a meno di non pagarne il prezzo in termini economici, disciplinari, sociali, emotivi…
Come possiamo (non) comunicare in queste situazioni? Capiamolo grazie alle esperienze della Terapia Breve.
Fuggire nel sintomo
Oltre ad accettare (contro voglia) la comunicazione, a rifiutarla o a squalificarla (dicendo niente mentre diciamo qualcosa), una quarta via di fuga è il sintomo.
L’interlocutore “può far finta di aver sonno, di essere sordo o ubriaco, di non conoscere la lingua, o può simulare qualunque altro stato di incapacità o qualunque difetto che giustifichino l’impossibilità di comunicare. In tutti questi casi, dunque, il messaggio è sempre lo stesso; vale a dire: ‘Non mi dispiacerebbe parlare con lei, ma c’è qualcosa più forte di me (e quindi non posso essere biasimato) che me lo impedisce” (Watzlawick et al., p. 68).
“Tutto qui?”, potremmo chiederci delusi. “Assomiglia più a una menzogna che a un sintomo!”.
Sebbene tutti possiamo fingere, la spontanea produzione sintomatica si rivela quando la persona ha convinto se stessa di stare male. Questo convincimento non deve necessariamente passare per una via razionale e consapevole, anzi, spesso è il risultato di una strategia di non-comunicazione (con l’altro, con se stessi, o magari genericamente con il mondo esterno) che ha funzionato più o meno efficacemente in determinate occasioni e che finisce per diventare spontanea, automatica e apparentemente incontrollabile, un tentativo estremo di risolvere una situazione vissuta come problematica, dolorosa, da cui uscire sembra impossibile – se non al prezzo del biasimo, del disprezzo, dell’aggressività, della paura, del rimprovero, della punizione, ecc. da parte dell’altro, di noi stessi, della società o della cultura.
Cosa ci dice lo schizofrenico
Ne è un esempio la sintomatologia schizofrenica nell’ottica di Bateson e colleghi, i quali notarono il manifestarsi di questo disturbo in famiglie dove vige una modalità interattiva definita “doppio legame” (double bind), con cui vengono trasmessi due messaggi contemporanei e contraddittori. L’esempio più classico è quello del genitore che chiede al figlio di abbracciarlo, irrigidendosi subito dopo; quando il figlio vive questa discrepanza tra comunicazione verbale e non verbale si allontana e allora il genitore chiede: “Perché ti allontani? Non mi vuoi bene?”.
I sintomi schizofrenici del figlio diventano così la fuga da un’interazione sofferta, un tentativo patologico di non comunicare in una situazione emotivamente insostenibile, dove se abbraccia il genitore sbaglia e non lo abbraccia sbaglia lo stesso!
Altri esempi di sintomi usati per non-comunicare potrebbero essere il famigerato “mal di testa” pre-amplesso e in generale tutta una serie di sintomi psicosomatici sviluppati al fine di non intraprendere una determinata comunicazione/relazione.
Ma il sintomo in sé è comunque una comunicazione
Se il tentativo è quello di non-comunicare in quel processo interattivo, interrompendo ad esempio le possibilità di un rapporto sessuale o di una relazione disturbante, esso esprime comunque il malessere della persona che lo vive. Il nostro passeggero d’aereo potrebbe farsi venire un attacco di sonno, nausea, mal di testa, panico o quant’altro; ma se così evita quella specifica conversazione col suo compagno di viaggio, gli comunicherà comunque che sta vivendo un disagio.
Il sintomo diventa così espressione di un problema, di qualcosa che non funziona per la persona che lo vive, anche se non necessariamente non funziona nella persona che lo vive: ne è un esempio la tipologia di anoressica sacrificante individuata dal gruppo di Selvini Palazzoli, che può sviluppare il disturbo anoressico in reazione a gravi problematiche familiari che mettono in pericolo l’equilibrio della famiglia stessa; in questo senso la ragazza si “sacrifica” per il bene familiare, sviluppando l’anoressia.
La comunicazione attraverso il sintomo è molto più comune di quanto si pensi, spesso però è semplicemente lieve e di breve durata.
I problemi insorgono quando si cronicizza e diviene la modalità comunicativa predominante, una comunicazione di disagio della persona che però non fa che aggiungere sofferenza alla sofferenza. Spesso, poi, si parte da una piccola manifestazione che poi si allarga come una macchia d’olio, o finisce addirittura per creare problemi del tutto nuovi, da cui liberarsi da soli diventa doloroso e difficile.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
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Riferimenti bibliografici
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Bateson, G., Jackson, D.D., Haley, J., Weakland, J.H. (1956). Verso una teoria della schizofrenia. In G. Bateson (1972), Verso un’ecologia della mente. Milano: Adelphi.
Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967). Pragmatica della comunicazione umana. Roma: Astrolabio.