
Siamo a cena, Luigi* e io. L’indomani dobbiamo tenere una giornata di formazione e adesso stiamo parlando di tutto, di qualunque cosa abbiamo voglia di condividere: ci conosciamo da poco più di tre ore, ma c’è stata subito un’ottima intesa.
Luigi mi chiede del mio lavoro di psicoterapeuta, di cosa faccio, di come lo faccio, e delle maggiori difficoltà che incontriamo.
«Sai» gli dico, «c’è un bellissimo libro sul cambiamento – Change, di Paul Watzlawick – che ha un capitolo che s’intitola “Tutto, ma non questo”».
«Che vuol dire?» mi chiede Luigi.
«Che spesso vogliamo cambiare qualcosa, ma vorremmo cambiare senza cambiare quella cosa, cambiare rimanendo gli stessi: solo che in questo caso rimanere gli stessi significa soffrire».
Luigi annuisce. «Certe volte ci freghiamo con le nostre stesse mani».
«Un sacco di volte» aggiungo.
Guarda senza guardarlo un punto accanto a me. «È tutto uno state of mind» dice. «È tutto uno state of mind».
Tornate a casa di fretta. Salite le scale a due a due. Aprite la porta. Dov’è? Cercate il vostro compagno (o la vostra compagna), poi sentite un rumore in cucina: è lì. Vi precipitate, lo/la trovate e gli dite di ascoltarvi: avete appena scoperto una cosa.
Lui/lei vi ascolta mentre voi gli spiegate come oggi, Tizio, vi abbia raccontato una vicenda che – incredibile! – vi ha aperto la mente, vi ha fatto capire quella cosa importantissima, che ora avete finalmente davanti agli occhi. Andate avanti per dieci minuti e poi vi fermate e aspettate la sua reazione. Che non è come l’aspettavate.
«Ma queste cose te le ho dette già io un milione di volte!»

Vi è mai capitato?
Ok, magari senza le scale salite a due a due, o il precipitarvi in cucina. Ma quante volte qualcuno ci dice una cosa che già altri ci avevano detto – o su cui addirittura avevamo già riflettuto abbondantemente per conto nostro – e quella cosa, detta da lui, in quel momento, con quelle parole, sembra aprirvi le porte a un modo completamente nuovo di vedere le cose?
Ecco, è questo che mi succede mentre ascolto Luigi pronunciare quella frase: «È tutto uno state of mind».
Con questo inglesismo anche un po’ pompato, “state of mind”, che a me neanche fa impazzire perché amo la nostra bella lingua (sebbene ogni tanto, ahimé, qualche inglesismo scappa pure alla mia bocca). Ma forse è proprio l’uso di quel termine il motivo per cui il concetto s’imprime nella mia mente: “state of mind”, che con il suo inglese bypassa (eccolo l’inglesismo!) la mente cosciente, l’emisfero razionale, per dirigersi verso quello olistico, cosicché cogli il tutto tralasciando il dettaglio.
Ora, capisci una cosa. Per uno che si occupa di cambiamento, di comunicazione, di percezione limitante e di modi per sbloccarla, dire che tutto quel che facciamo dipende da uno stato della mente, da un modo di vedere le cose (disfunzionale) è pane quotidiano stramasticato e pure digerito e assimilato e trasformato in carburante, a sua volta utilizzato e riutilizzato chissà quante centinaia di migliaia di volte.
Eppure va detto: quella frase mi pianta nel cervello un seme che come il famoso fagiolo magico cresce velocemente, facendomi arrampicare verso un nuovo modo di concepire le cose. Certe cose.
Ok, fermiamoci un momento.
Nella vita esistono le “ristrutturazioni“, con le quali intendo delle comunicazioni (ma anche delle azioni) capaci di darci una visione, un significato, completamente nuovi di qualcosa che avevamo sotto gli occhi fino ad allora. A volte, in rarissimi casi, queste ristrutturazioni sono talmente devastanti, inondazioni di tale portata, da produrre cambiamenti catastrofici (in termini di portata, non in termini di effetti, che possono essere anche estremamente positivi) capaci di dilagare in tanti se non tutti gli aspetti della propria vita, portandoti a modificare totalmente la tua visione delle cose e di conseguenza le tue azioni.
Non è questo il caso.
E sinceramente non ho mai vissuto una ristrutturazione di tale portata, né ho mai conosciuto qualcuno a cui sia capitata.
Questa premessa per evitare e allontanare subito l’ombra di quei guru che, come scriveva sempre il buon Paul Watzlawick, promettono paradisi in terra che santi in cielo non oserebbero nemmeno dischiudere.

«E quindi cos’è che possiamo notare con questa vicenda dello state of mind?»
Hai in mano una scatola di fiammiferi. La apri, prendi un fiammifero, la chiudi, strusci il fiammifero, e la riponi in tasca. E così giorno dopo giorno, magari anche tutti i giorni, per tanti mesi, anni. Finché un giorno hai una candela, la accendi, quella cola e non hai dove poggiarla… e di punto in bianco la scatola di fiammiferi diventa qualcos’altro: la apri, la svuoti dei fiammiferi, poggi la candela dentro, fai colare un po’ di cera, e la tieni lì.
Ora fai la stessa cosa con questa cosa dello “state of mind”.
Giorni dopo la cena con Luigi parlo qui e lì di questo concetto con qualche amico, uno dei quali torna da me il giorno successivo.
«Sai» mi dice, «ieri ero alla posta. C’era la fila, perché la macchinetta che distribuisce i numeri era rotta. A un certo punto un tipo mi passa avanti: è una di quelle situazioni in cui, sai, magari stai leggermente indietro, oppure il tipo era accanto a te e non dietro te, oppure c’è un momento di distrazione… Insomma, quello ci prova, fa il furbo. Io allora voglio dirgli qualcosa, e invece inizio a pensare: ‘Magari poi si lamenta. Magari mi fa una scenata, oppure mi dice che mi sbaglio, che c’ero prima io. O magari semplicemente fa il prepotente, e mi tocca battibeccarci davanti a tutti, e non c’ho voglia’. Insomma, mi stavo autosabotando, stavo trovando le scuse migliori per evitare, finché a un certo punto mi sono detto: ‘È tutto uno state of mind, è tutto uno state of mind‘. Lo so, sembra stupido, ma mi sono detto solo così e a quel punto ho toccato la spalla al tipo che si è girato e gli ho detto, tranquillamente ma con decisione, ‘Scusa, tu stavi dietro di me, mi sei passato davanti’. E quello muto, ha farfugliato qualcosa e s’è messo dietro. Insomma… ‘sta cosa dello “state of mind” funziona».
“Sta cosa dello state of mind funziona”…
Vaglielo a spiegare che non è un’arma, né una tecnica: è solo uno scivolo per prendere consapevolezza di una cosa che sappiamo in molti, e cioè che costruiamo la realtà che poi subiamo.
Facciamo cose, o non facciamo cose, solo perché ci leghiamo al piede una pesante palla di considerazioni, riflessioni, rimuginii, percezioni che ci limitano nei movimenti, nei gradi di libertà, nelle possibilità, nel fare e nell’agire. E così ci fermiamo, non osiamo, non facciamo, non diciamo, non proviamo, non tentiamo, perché bloccati da quel mucchio di pensieri che alimentano il blocco stesso, che a sua volta rinforza i pensieri che continuano così ad alimentarlo, in un continuo circolo vizioso in cui, alla fine, il risultato è che evitiamo di fare qualcosa o non smettiamo più di farla.
Eppure, questo limite, è tutto uno state of mind.
Dott. Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Specialista in Terapia Breve Strategica
e Ipnositerapia
Per approfondimenti:
Watzlawick, P., Weakland, J., Fisch, R. (1974). Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio.
*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.