Il dolore cronico è un problema che solo nel nostro Paese affligge il 21,7% della popolazione, circa 13 milioni di persone, secondo l’Istat. Siamo abituati a pensare che il dolore sia un fenomeno puramente biologico e meccanico, una sensazione soltanto fisica, e lo curiamo come tale, ma non sempre si può seguire un approccio così riduzionista. Perché il dolore è più di una semplice afflizione corporea.
Il dolore viene definito dall’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) come “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole, associata ad un danno tissutale, in atto o potenziale, ovvero descritta nei termini di tale danno”. A determinarlo, quindi, non sono solo le modificazioni dovute al danno fisico, ma anche l’interpretazione personale della gravità di quel danno. Fattori come le passate esperienze, la percezione di riuscire a farvi fronte, le paure ad esso connesse, il sostegno sociale e altri, determinano il modo in cui il dolore viene vissuto e la nostra reazione. Le due esperienze, sensoriale ed emotiva, si rinforzano.
Ma il dolore serve davvero a qualcosa? Proverò, attraverso questo articolo, a spiegartelo con l’aiuto delle Terapie Brevi.
Il dolore non è solo una questione corporea
Zoffness, autrice di «The Pain Management Workbook», in una lunga intervista per il podcast Ezra Klein Show del New York Times, racconta come una diversa considerazione del dolore — basata su dati ormai acquisiti dalla ricerca medica e scientifica — possa aiutarci a curarlo meglio. Ma per poter usufruire di questa cura migliore bisogna partire da un presupposto: la funzione del dolore. Il dolore infatti è una sorta di sistema di allarme del corpo, un meccanismo di rilevamento del pericolo, il cui compito è impedirci di fare qualcosa che potrebbe danneggiarci.
«Alle persone che soffrono di dolore, se non si riesce a trovare una particolare patologia o c’è un dolore di eziologia sconosciuta, viene spesso detto: è solo nella tua testa. Storicamente, questo accadeva soprattutto alle donne. Se provavano dolore o forti emozioni veniva loro diagnosticata l’isteria e veniva detto che i loro problemi erano solo nella loro testa. Ma il dolore che proviamo è sempre reale — dice Zoffness —. E una delle cose più importanti di cui dobbiamo parlare quando parliamo di trattamento efficace del dolore è che non si può intervenire solo sulla schiena o sul ginocchio, ma si deve intervenire anche sul cervello».
«Il cervello utilizza tutte le informazioni disponibili, in un dato momento, per decidere se produrre dolore e quanto, perché questo è il suo compito. Quindi — spiega ancora Zoffness — usa informazioni provenienti da esperienze passate. Usa il luogo in cui vi trovate e le persone con cui siete. Usa le emozioni, come vi sentite. Incorpora, naturalmente, i messaggi sensoriali provenienti dal corpo, da tutti e cinque i sensi».
Il dolore è, infatti, un’ emozione primaria, la più disarmante, ma tutti noi siamo dotati geneticamente di una capacità adattiva per affrontarlo e superarlo al meglio. Dicesi Resilienza la “Capacità di un individuo di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà”.
Come si “guarisce” dal dolore?
Il dolore cronico nasce quando il cervello, sintonizzato per captare i messaggi sensoriali del corpo, li interpreta come pericolosi, amplificandoli, anche se non sono così pericolosi. È per questo che in molti casi, secondo Zoffness , il dolore cronico si autoalimenta. «Se siete una persona che vive con il dolore e credete che sia pericoloso uscire e fare una passeggiata e che sia pericoloso vedere gli amici, non guarirete mai — dice —. Perché parte del ciclo del dolore cronico consiste nel rimanere in casa, nel rimanere a letto e nel perdersi molto della vita». In alcuni casi è inevitabile. «Ma nel caso del dolore cronico, è emerso che questo tipo di ciclo del dolore è quello che alla fine amplifica il dolore, perpetua la disabilità e impedisce la guarigione» dice Zoffness.
L’uomo moderno cerca a tutti i costi di evitare il dolore, di controllarlo in tutti i modi per evitare e scongiurare la faticosa sofferenza. E per farlo utilizza alcune celebri tentate soluzioni disfunzionali, come: sforzarsi di non pensarci, soffocare le emozioni che si provano, usare la modalità dello “struzzo”: non voler vedere, coprire con la rabbia tutto ciò che non si può cambiare e che non si accetta. Tutti tentativi di evitamento, ma quando si cerca di inibire l’emozione dolorosa, di soffocarla o di minimizzarla, paradossalmente, ci si ritorce contro, innescando un vero e proprio circolo vizioso.
Il ciclo del dolore, però, può anche essere interrotto e addirittura invertito. «Gradualmente, nel corso del tempo, possiamo desensibilizzare un cervello sensibile aumentando gradualmente piccoli frammenti di attività fisica, esposizione sociale e movimento» spiega Zoffness. «Le neuroscienze dimostrano che quando lo stress e l’ansia sono elevati e il nostro corpo e i nostri muscoli sono tesi e i nostri pensieri sono preoccupati, il cervello aumenta e amplifica il volume del dolore, quindi il dolore si sente di più» dice ancora Zoffness. Allo stesso modo il dolore peggiora quando proviamo emozioni negative e quando ci concentriamo su di esso.
Per liberarsi del dolore cronico più disabilitante è fondamentale dunque cercare la propria «ricetta del poco dolore» e farlo gradualmente, seguendo quella che, secondo le Terapie Brevi, è la logica dei piccoli passi.
Dr Flavio Cannistrà
Co-Fondatore dell’Italian Center for Single Session Therapy
co-Direttore dell’Istituto ICNOS
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
Riferimenti