La Trappola Dell’etichetta Diagnostica Il rischio della diagnosi
Tempo fa venne da me una donna*. Mi disse che un professionista le aveva somministrato un noto test di personalità al termine del quale aveva storto la bocca e detto: “Forse è meglio che ti fai vedere da uno psicologo.”
«Ed eccomi qui, dottore» disse lei.
Io la guardai, in attesa; poi, quando mi resi conto che non avrebbe aggiunto altro, chiesi sorpreso: «Ma qual è il suo problema?»
«Non ho un problema. Ma mi è stato detto che avevo bisogno di aiuto e perciò eccomi qua.»
Mi resi conto allora di quale fosse davvero il problema: quella donna era finita in trappola.
Il nome della cosa
Prendi l'”anoressia nervosa”.
Sai dirmi che cos’è?
«Un disturbo mentale per cui la persona si vede sempre grassa e smette di mangiare, più o meno.»
Ecco, io lo direi in un altro modo.
«E cioè?»
Si osservano situazioni in cui una persona si vede sempre grassa e smette di mangiare (più o meno, come hai detto tu), e da questa osservazione si è arrivati in modo concorde, tra chi si occupa di studiarla, a dargli un nome: anoressia nervosa.
«Ok, e quindi?»
Quindi quello su cui vorrei che riflettessi è una cosa sottile, ma fondamentale: “lì fuori” non esiste l'”anoressia nervosa”. Esiste una “situazione”, una “cosa”, ed esiste poi un “osservatore” e la sua peculiare “osservazione”. E in fondo a questa catena, dalla sua osservazione nasce un “nome”, in questo caso un'”etichetta diagnostica”: l’anoressia nervosa.
La diagnosi, specialmente in psicologia, non è “la cosa”.
La diagnosi è come un osservatore ha chiamato “la cosa”.
La diagnosi (1): Capirsi al volo
La diagnosi può essere utile. Per un fatto molto semplice: riduce la complessità. Che potrebbe essere un altro modo per dire che “velocizza i tempi”.
Con i miei clienti tendo a dire una cosa: la diagnosi serve a noi clinici per parlare in modo più veloce.
Anziché dire a un collega: “Sto vedendo una ragazza che è fortemente sottopeso, non ha mestruazioni da sei mesi, mangia quantità infinitesimali di cibo, si percepisce sempre grassa, tende a trattenere le emozioni ecc. ecc. ecc.”, posso dire “Sto vedendo una ragazza anoressica.” Il collega, che ha studiato l’anoressia come me, saprà subito di cosa parlo.
In realtà non saprà esattamente di cosa parlo. Chissà su che libri ha studiato, con quali professori, e se ha fatto ricerche diverse dalle mie… E se anche avessimo fatto lo stesso identico percorso di studi, addirittura dedicando lo stesso identico numero di ore a quell’argomento, chissà come lo avrà interpretato lui, con che occhi l’avrà guardato, quali riflessioni avrà compiuto.
Poco male, comunque. Se gli dico “Sto vedendo una ragazza anoressica” capirà velocemente cosa intendo, almeno in senso generale, e comunque con una certa precisione. Di certo non penserà che sto vedendo una ragazza obesa; né gli verrà in mente per prima cosa che il problema di quella ragazza sono le allucinazioni, o delle immagini ricorrenti che non riesce a scacciare.
L’etichetta diagnostica ci avrà permesso di capirci al volo su alcuni punti generali, ma essenziali.
La diagnosi (2): Sapere che pesci pigliare
Le persone sono uniche. Spesso dicevo una cosa: “Siamo simili a tutti, ma uguali a nessuno”. Sono due affermazioni vere. Entrambe.
Per quanto non esistano due cristalli di neve uguali, sappiamo che hanno delle proprietà comuni. Ad esempio sono freddi (beh, un cristallo di neve non so che temperatura abbia, ma hai capito cosa intendo) e se ne accumuli qualche miliardo ci puoi fare un pupazzo di neve.
Le persone, come i cristalli, sono uniche. Ma hanno delle proprietà comuni. E la scienza si basa su questo.
A partire dalle proprietà comuni puoi aspettarti con più probabilità determinati risultati piuttosto che altri. Ad esempio, se dici con cattiveria una parolaccia a una persona, puoi aspettarti con più probabilità che quella risponda in modo negativo, piuttosto che positivo.
Più precisamente è una questione statistica: quindi possiamo dire che se dici con cattiveria una parolaccia a un migliaio di persone diverse, è più probabile che la maggior parte di esse (almeno il 51%) risponda in modo negativo. Non è sicuro, non ne hai la certezza assoluta: magari incontrerai le 1000 persone più gentili del Pianeta! Ma di sicuro è più probabile che avvenga il contrario: probabilmente la maggior parte di esse risponderà in modo negativo a una parolaccia subita.
Ecco, la scienza parte da questo presupposto.
E così succede che, vedendo tante persone a cui verrebbe assegnata l’etichetta diagnostica “anoressia nervosa”, che come abbiamo già detto hanno delle caratteristiche in comune (alcune avranno tutte queste caratteristiche, altre solo una parte), avranno anche in comune la probabilità di rispondere in modo positivo a certi trattamenti piuttosto che ad altri.
Ecco, ad esempio, il motivo per cui con questo problema si consiglia più spesso un coinvolgimento di tutta la famiglia all’interno della terapia dell’anoressia nervosa: ad oggi si è visto che, nella maggior parte dei casi, ha più probabilità di funzionare meglio.
Così, tirando le somme, l’etichetta diagnostica ti indirizza anche verso il modo che, con le conoscenze di oggi, sembra essere più produttivo per affrontare un problema.
L’elemento dimenticato: la persona
In un libro dedicato a ciò che produce il cambiamento in psicoterapia, Bohart e Tallman (2010) hanno scritto un bel capitolo chiamato Il fattore dimenticato: la persona. Si riferivano al fatto che, nel considerare i fattori che rendono possibile il successo terapeutico, spesso si dimentica il più importante: la persona, appunto.
Questo è uno dei motivi per cui in Terapia Breve si mette spesso al centro proprio lei, con le sue caratteristiche: si parte da quelle per poter garantire un successo maggiore e migliore.
Ma la persona è anche fondamentale per non dimenticare un’altra cosa: l’etichetta è un’etichetta, non è una persona.
A dirla tutta, infatti, io non direi mai “Sto vendendo una ragazza anoressica”. O meglio: è pure capace che, proprio per il fatto di “capirsi al volo”, mi capiti con un collega di usare quelle parole. Ma non penso mai che ho di fronte una “ragazza anoressica”. Perché la ragazza non è anoressica. La ragazza, semmai, ha un problema, e quel problema, nel linguaggio scientifico della psicologia, viene detto “anoressia nervosa”.
Una differenza sottile, ma vitale.
La persona e il problema
Come diceva il padre della terapia narrativa, Michael White, “il problema non è la persona: il problema è il problema”.
Dire e pensare di avere di fronte una “anoressica” rischia di appioppare (termine tecnico) tutta una serie di caratteristiche alla ragazza che si ha di fronte. “Le parole sono come pietre” diceva Italo Calvino: attento a come le usi.
Da una parte abbiamo il problema con tutte le sue caratteristiche, le quali peraltro, ricordiamocelo, sono frutto di un’osservazione fatta da un osservatore. O meglio, sono frutto di tante osservazioni fatte da tanti osservatori, i quali si sono trovati a osservare le stesse (più o meno) caratteristiche, cosa che ci permette di prevedere con una certa precisione alcune peculiarità, alcune ridondanze, di quel problema.
Ma, pensaci bene, il fatto che quel problema venga visto in quel modo, che quelle caratteristiche siano incluse e altre escluse, è frutto di una decisione umana presa da quegli osservatori. Per di più, nella scienza convivono diverse osservazioni, anche diverse tra loro: semplicemente ce ne sono alcune più largamente accettate.
«Oddio, e quindi io come faccio a sapere a chi affidarmi?!»
Nello stesso modo in cui tutti i giorni scegli cosa mangiare e cosa no: generalmente le osservazioni più largamente accettate sono quelle che hanno convinto la maggior parte degli osservatori, e dovrebbero essere le più sicure ed efficaci.
Non possiamo darlo per scontato, ma se non dovesse rivelarsi così, se ad esempio facessi una terapia largamente condivisa e non trovassi beneficio, puoi sempre cambiare (questo è il motivo per cui invito a verificare che una terapia dia dei primi risultati in tempi brevi, altrimenti rischieremmo di stare anni “a verificare” se funziona o no).
Dall’altra parte, poi, c’è la persona, con le sue caratteristiche, le quali influenzeranno marcatamente il modo in cui quel problema si manifesterà. E, soprattutto, il modo in cui reagirà ad esso, le risorse che avrà per affrontarlo, le capacità che le permetteranno di superarlo, gli apprendimenti che ne trarrà per diventare più forte.
Le trappole dell’etichetta
Così, ci troviamo di fronte con più chiarezza alla possibile trappola dell’etichetta diagnostica. O alle trappole, se vogliamo. Non volendo però allungare troppo questo articolo, te ne descrivo una su tutte: la profezia che si autorealizza.
Ormai questo meccanismo è piuttosto noto: il semplice fatto di pensare che qualcosa possa accadere può farla accadere. E non per infondate spiegazioni esoteriche, ma per il semplice fatto che se penso che certe cose andranno in un modo, dispongo me e/o l’altro in uno stato tale da adottare percezioni, atteggiamenti e comportamenti che spingono proprio in direzione di ciò che temo/pensa accada.
Così, se penso che “le anoressiche” sono pazienti difficili da trattare, magari manipolatorie, o che mentono spesso su ciò che riguarda l’alimentazione, come pensi che mi porrò di fronte alla prossima “anoressica” che vedrò? E lei, di fronte a questo mio modo di pormi, come pensi che reagirà? Sarà più, o meno, collaborativa?
Attenzione, tutto questo non vuol dire che devo ignorare ciò che posso apprendere dalla diagnosi. Ad esempio, in effetti sembra che molte persone che presentano un quadro anoressico spesso non dicono il vero sulla propria alimentazione (per diversi motivi, connessi al loro problema). Ma “molte persone” non è “tutte”. E soprattutto non è detto che sia chi hai di fronte. Il rischio, quindi, è quello di fare di tutta l’erba il famigerato fascio.
Questa possibilità non è affatto nuova, e i suoi effetti non sono affatto trascurabili. Ad esempio, cambiando campo, c’è molta differenza nelle reazioni di chi legge su una testata giornalistica scrive “Uomo trentenne aggredisce vecchietta” oppure “Extracomunitario trentenne aggredisce vecchietta”. Ecco che abbiamo associato, magari inconsapevolmente, “l’extracomunitario” (che di per sé è giù un’etichetta) a una caratteristica negativa: l’essere aggressivo.
Quando mi troverò di fronte il prossimo “extracomunitario” che atteggiamenti, consapevoli o no, avrò?
E tu cosa rischi?
Il rischio, comunque, non è solo nei professionisti. Anzi, in teoria loro dovrebbero essere i più preparati nell’evitare questo genere di situazioni, perché dovrebbero far parte del loro bagaglio di studi. Il rischio maggiore, forse, lo corri tu.
Perché non sono solo gli altri a etichettarci: rischiamo di farlo noi stessi.
E così la donna che venne da me si era messa addosso l’etichetta di “malata mentale”, al punto da pensare di avere un problema che nemmeno lei riusciva a percepire. Nel suo caso era stato il risultato di un test a farle dubitare da un momento all’altro della sua sanità. Ma capita molto spesso di cadere vittima di errori simili.
Oggi più che mai, ad esempio, ciò avviene grazie a Internet, che è diventato lo strumento diagnostico per eccellenza, il quale ci fa dimenticare che il medico, quando gli presentiamo l’elenco di sintomi accusati, non va su Google a vedere che cosa potrebbe essere.
Inoltre, nel momento in cui una diagnosi arriva, a volte può cadere dal cielo come la lama di una ghigliottina, che taglia irrimediabilmente una parte di noi, menomandoci. Così, contrariamente a quanto detto da Michael White (citato poco fa), il problema non è il problema: il problema è la persona.
Durante il mio periodo di formazione in un Centro di Salute Mentale, ricordo alcune persone che erano lì da anni e mi dicevano: “Ho un male nel cervello: è così e non si può curare”. Non è un’affermazione strana e ti dirò una cosa: ha anche una sua comprensibile origine. Probabilmente spesso è il risultato di anni di confronti con medici e ha lo scopo di far capire alla persona la necessità di dover seguire la terapia farmacologica – che, per i casi in cui è necessaria, andava fatta con costanza.
Il problema è che rischia anche di non lasciare alcuna speranza di miglioramento: se hai “un male nel cervello”, l’idea di poter cambiare “parlando con qualcuno” non ti sembrerà probabile: allora perché impegnarsi? Diventi così vittima, giudice e carnefice di te stesso. La (auto)diagnosi ti condanna. O ti condanna chi te la fa.
Cosa fare
Vorrei che fosse chiara una cosa: non sto in alcun modo dicendo di buttare le diagnosi. Siamo al solito discorso: sono uno strumento, e se usato bene è davvero utile. Così come la forchetta è utile per mangiare. Naturalmente, se la usi per infilzarti la mano lo è un po’ meno…
Detto questo, il mio suggerimento principale è quello di considerare appunto la diagnosi come uno strumento: se usato bene è utile, se usato male… fa danni. Questo significa, tra le altre cose, confrontarsi proprio con il terapeuta per capire meglio cosa significa una diagnosi, che implicazioni ha, a cosa può essere utile per noi – e se può esserlo.
Inoltre, un altro suggerimento è quello di non pensare alla diagnosi come a una incisione a vita sulla tua carne.
Un famoso aneddoto diceva che, secondo i fisici, la massa del calabrone è troppo grande perché le sue piccole ali possano sollevarlo in volo: solo che lui non lo sa, e perciò continua a volare.
La diagnosi è il risultato di un’osservazione ma, senza voler essere psicoticamente ottimisti, l’aspetto forse più importante, di sicuro importantissimo, è la persona. Se sarai convinto di avere una “condanna diagnostica”, sarà sicuramente così. Ma se penserai che il nome con cui hanno chiamato il tuo problema è soltanto un nome, starai mettendo in risalto il fatto che a fare la differenza non è la diagnosi: sei tu.
Dr Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapia Breve
Terapia a Seduta Singola
Ipnosi
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Bibliografia
Bohart A. C. & Tallman K. (2010). Clients: the neglected common factor in psychotherapy. In Duncan B., Miller S., Wampold B., Hubble M. (Eds). The Heart and Soul of Change, 2nd, 83-111. Washington, DC: American Psychological Association.
Watzlawick, P. (1981). La realtà inventata. Contributi al costruttivismo radicale. Milano: Feltrinelli, 1988.
White, M. & Epston, D. (1989). Literate Means to Therapeutic Ends. Adelaide: Dulwich Centre Publications.
*Tutti i casi descritti in questo blog sono frutto di invenzione, basati sulla mia esperienza clinica e non riferiti a persone realmente esistenti.